II - Le ombre di Rockstead
Da tempo immemore Kald è sempre stata la nostra terra. Agli dèi piacendo, consacrato alle Sei Voragini di Fuoco, il nostro Shogun, Sommo Padrone degli Eserciti, risplende sorretto dai Quattro Pilastri, osservando immobile la prospera esistenza che egli concede ai propri figli. La testardaggine e la durezza di Ramaturi, la duttilità e la scaltrezza di Inbar, l’immaginazione e l’intraprendenza di Azanul, la forza e la prontezza di Brym: le grandi qualità delle quattro dinastie sono sempre state le armi del nostro Generale, così come egli stesso è la nostra alba e tramonto.
D. Freisig, Urid’takae [Fuoco della Battaglia], Brahmya (collezione privata)
Ganus camminava lungo uno dei numerosi canali di Rockstead, respirando l’aria salmastra della città. Si fermò per aggiustare la morning star assicurata al fianco. Liberò un breve sospiro; la nuova arma era un peso a cui si sarebbe dovuto abituare. Tutto a suo tempo, si disse. La pazienza non gli mancava, anche se negli ultimi tempi – dal giorno del processo – combatteva silenziosamente con uno strisciante senso di irrequietezza. Beh, lo definiva “strisciante” perché non sopportava l’ipotesi che potesse essere “schiacciante”. In fondo, però, era il motivo per cui si era proposto per la missione. Non poteva dimenticare come si era sentito sollevato che le alte sfere avessero approvato la sua nomina. Osservò il riflesso della sua pelle grigia nell’acqua increspata del canale, i riverberi accecanti del tramonto che tagliavano la sua figura tremolante. Ascoltava la quiete del momento. Pace. Il suono della civiltà intorno a lui. L’odore di pesce grasso arrostito sulla griglia di una locanda. Il sibilo di una voce che lo chiamava nella lingua dei nani.
«Psst! Inquisitore».
Si voltò a fronteggiare le ombre del vicolo che si apriva alle sue spalle. Da lì faceva capolino il muso di un coboldo – del coboldo. Un dito artigliato lo invitò ad avvicinarsi, ritirandosi poi nelle profondità del viottolo. Contrariamente alla maggior parte delle persone, il cui sospetto le avrebbe portate a girare al largo da un vicolo angusto dove un coboldo aspettava nell’oscurità, fu proprio per sospetto che Ganus si mosse. Le situazioni sospettose erano il fondamento del suo lavoro. Non che l’oscurità fosse poi un problema per la sua gente.
Si avvicinò alla bocca sgangherata della calle, il sole che allungava la sua ombra fino a confonderla con quella degli edifici. Il coboldo si era allontanato di poco, lo attendeva strascicando i piedi, le corna coperte dal cappuccio del mantello nero e sbrindellato.
«A che gioco stai giocando, Inquisitore?» lo affrontò con la stessa energia nervosa con cui lo aveva accolto nella bottega fabbrile.
«Prego?» rispose Ganus con cortesia, sinceramente colto di sorpresa tanto dalla domanda, quanto dalla spigliatezza con cui masticava il Nanico. Aveva un’inflessione che rendeva gutturali certi suoni aspri della lingua, e parlava senza alcun rispetto per le formalità, certo, ma era un miglioramento innegabile rispetto allo stentato Comune usato solo qualche ora prima.
«Vuoi farmi saltare la copertura?» il coboldo lo guardò severamente con gli occhi gialli.
Il nano scosse lentamente la testa. «Non ho idea di cosa tu stia parlando».
L’esserino continuò a guardarlo in viso, le pupille da rettile che lo squadravano frenetiche in cerca di un appiglio.
«Cosa sei entrato a fare nella bottega del nano? Eri lì per arrestarlo? Fare domande? Stai indagando su faccende illegali?» un movimento ampio delle braccia accompagnò le parole su cui il coboldo aveva posto la sua enfasi smaniosa.
Pazienza. Ganus fece un piccolo sorriso e rispose con calma: «Sono entrato per comprare un’arma». Portò una mano sull’impugnatura, in un gesto che non voleva essere minaccioso, quanto più esplicativo.
Il coboldo iniziò a borbottare fra sé nella lingua dei draghi. Si allontanò per recuperare il gigantesco zaino, abbandonato più avanti. Una scimmia cappuccina saltò fuori da chissà dove e ci si arrampicò sopra.
Pazienza. «Tu invece cosa ci facevi, nella bottega? A parte farti buttare fuori». L’Inquisitore non si mosse, limitandosi a soppesare le due creature con lo sguardo grigio; insieme non facevano la sua altezza.
Se il coboldo aveva accusato il commento non lo diede a vedere; tornò a voltarsi verso Ganus e un luccichio furbo illuminò i suoi occhi.
«Indagavo» rivelò con malcelato entusiasmo. «Sono un’informatrice. Sto indagando su una bisca clandestina, il nome della bottega è venuto fuori, quindi stavo cercando indizi».
Pazienza. Il sorriso di Ganus era come congelato sul suo volto. «Ma davvero? Sei un’informatrice? Per chi lavori?»
Il coboldo si avvicinò lentamente, con un’espressione più serena sul viso. Invece di rispondere, gli tese la mano artigliata. «Kattegat» si presentò. Gli occhi di Ganus si strinsero leggermente, ma il suo istinto non riuscì a leggere eventuali doppi fini. «Sono Ganus» rispose, prendendo la zampa con cautela.
«Inquisitore Ganus» Kattegat sembrò riempirsi la bocca con quelle due parole. «Magari noi due possiamo condividere le informazioni. Che ne dici?»
Pazienza. «Informazioni su cosa? Come ho detto, sono entrato al “Nano Battente” per comprare un’arma».
Il coboldo fece spallucce. «Ok ok ok ok… come preferisci. Immagino allora che tu non andrai con Ki-do nella città di Keldûm».
«Non ne ho motivo» ribadì Ganus.
«Ok ok ok ok» Kattegat alzò le zampe e lo superò, tornando alla luce della strada che costeggiava il canale. Abbandonò i suoni familiari all’Inquisitore e lo apostrofò:
«Allora io non vede te domani. Cia’!».
Il tempo di un occhiolino ed era già sparita tra le stradine.
Ganus rimase a contemplare l’enorme mucchio di cavolate che gli era appena stato rifilato. Tanto per cominciare, le illazioni che alcunché di illegale fosse collegato al “Nano Battente”, una bottega rinomata nell’intera città per la figura integerrima del proprietario. Poi, l’idea che qualcuno potesse servirsi di un coboldo così poco equilibrato per raccogliere informazioni. Prudenza. Un’ombra cupa gli attraversò il volto per un momento, ma quando mise piede nella luce sembrò sciogliersi, lasciandosi dietro un’espressione pensosa e determinata. Ripassò nella sua testa la conversazione, cercando di fissare nella mente i tratti del coboldo; si soffermò sul gruppo di scaglie rosso scuro che spiccavano in mezzo al muso color sabbia, un dettaglio che lo avrebbe aiutato a identificarla facilmente. Si trovò a chiedersi se non fosse un dettaglio fabbricato.
Pazienza. Il suo cammino lo portò lungo i canali maggiori, una passeggiata che lo aiutò a scrollarsi di dosso l’irrequietezza. Lasciò che il sole tuffasse i suoi dubbi oltre l’orizzonte e permise alla luna di seppellire il tarlo che la voce gracchiante di Kattegat aveva fatto nascere nella sua mente. L’indomani sarebbe arrivato e, con un po’ di fortuna, avrebbe portato qualche risposta. Tutto a suo tempo.
Quando il sole sorse il mattino successivo trovò un Ganus già sveglio che si incamminava verso la sede del Consolato di Rockstead. La cupola dell’edificio era visibile da quasi ogni via della città, la pietra bianca che risplendeva sotto la luce del giorno. Il Palazzo Consolare era raggiungibile da una qualunque delle strade, nonché dai canali, una comodità che era un punto di forza in tempi pacifici, come un punto di debolezza in periodi meno felici. Avvicinandosi, Ganus constatò la grandezza del palazzo, imponente come un mausoleo. Lo scheletro di pilastri e colonne che sosteneva la struttura sormontata dall’enorme cupola doveva sicuramente poggiare fin sotto il fondale marino, per riuscire a sostenere il peso di tutta quella pietra, il biancore reso ancora più luminoso dai riflessi che schizzavano dai canali tutto intorno. L’edificio era un capolavoro architettonico, un’opera mostruosa, simbolo della collaborazione fra umani e nani di cui tutta Rockstead era pregna. Ganus passò sotto al portico che adornava la facciata, ammirato, ed emerse nello spiazzo di pietra che formava il cortile interno. A quell’ora il posto era ancora deserto, non c’erano gli avvocati e i giudici diretti alle sale del tribunale centrale, né i consiglieri pronti ad affrontare una giornata di discussioni nella sala consolare. Le porte tuttavia erano aperte, seppur ben controllate da numerose guardie. Chiese indicazioni per l’archivio a un allampanato ragazzo dietro al bancone stondato dove gli impiegati amministrativi ricevevano i visitatori. Dopo aver controllato il suo status di diplomatico, che le insegne dello Shogunato gli accordavano nei territori delle Città Libere, gli venne indicata la strada per la biblioteca.
Il rumore dei suoi passi che infrangeva il silenzio altrimenti totale gli riportò alla mente i corridoi del tribunale di Brahmya, e la stessa calma determinata che provava in quella che considerava la sua casa lo accompagnò fino alla biblioteca maestosa.
Emerse in un grande salone pieno di scaffali e librerie disposte a raggiera, in un semicerchio suddiviso in numerose sezioni. Venne accolto da un nano dalla faccia allungata che gli conferiva una perenne espressione insonnolita; questi si accertò nuovamente delle sue credenziali prima di dirsi a sua disposizione.
«Ho interesse riguardo alla mancata consegna di una spedizione di materiali da Keldûm. Per caso avete constatato un ritardo diffuso nei trasporti tra le città?»
«No, non ci sono stati riportati problemi che coinvolgono l’importazione e l’esportazione di materiali. L’occasionale ritardo denunciato, ma nulla di anormale o fuori dal comune».
«Capisco» Ganus annuì e si munì del nome del fornitore che Ki-do gli aveva detto il giorno precedente: «In tal caso, avrei bisogno di controllare i dettagli di spedizione di un agente commerciale, Francis Cutter, lavora tra Rockstead e Keldûm».
Il funzionario recuperò alcuni registri doganali e lo accompagnò lungo la scalinata che saliva ai piani superiori, verso le sale di lettura: anziché allargarsi lateralmente, infatti, la biblioteca si sviluppava in verticale, i piani superiori riservati alla consultazione perché più vicini alla luce naturale del sole.
Ganus si accomodò a uno dei tavoli di legno scuro e si avvicinò il materiale che gli era stato fornito, immergendosi nella ricerca. Fu un compito tedioso, ma nell’ora seguente venne a conoscenza di tre informazioni di interesse variabile. In ordine scoprì che a) un altro artigiano che si serviva del lavoro del signor Cutter aveva denunciato una fornitura in ritardo, appena due settimane prima; b) i documenti siglati a Keldûm riportavano in realtà il nome “Kibildûm”; c) il signor Cutter doveva essere una persona poco precisa, o poco onesta, poiché la ricevuta di vendita presentata dall’artigiano insoddisfatto per la denuncia riportava un valore della merce maggiore rispetto a quello dichiarato sul permesso di esportazione emesso dall’ufficio portuale di Keldûm/Kibildûm, per la stessa spedizione. Dopo aver chiesto al funzionario spiegazioni riguardo al punto b), venne a sapere anche che d) da quando Keldûm aveva ottenuto l’indipendenza dallo Shogunato, i residenti avevano iniziato a chiamare la città Kibildûm, in riferimento alle miniere d’argento che si trovavano nelle vicinanze.
Ganus si trovò a riflettere, forse per la prima volta, sul significato del nome “Keldûm” nella sua lingua madre: “casa del calvo”. Ai tempi in cui ancora rientrava sotto lo scudo di Kald, lo Shogunato aveva usato la provincia come luogo dove allontanare i dissidenti. “Calvo”, come i criminali appena rasati. Non c’era da stupirsi che gli abitanti avessero deciso di prendere le distanze dal nome appioppato loro da un potere che non riconoscevano più. “Casa dell’argento”, il loro modo per restituire dignità e rispetto a un territorio che era stato disprezzato per troppo tempo.
Scrisse due righe su tutta la questione, insieme al resto degli appunti che aveva prodotto nel corso della ricerca: se il fabbro intendeva andare a cercare la spedizione dispersa avrebbe certamente avuto più successo se non avesse inavvertitamente offeso i locali.
Restituì i registri al funzionario, ringraziando, e fece per lasciare la biblioteca. Poi l’irrequietezza lo assalì dal nulla. Esitò ancora un momento sulla porta. La fiducia era a un passo di distanza. L’ingenuità le stava accanto. Prudenza. Tornò verso il bancone.
«Ki-do Dama» sputò prima che si permettesse di ripensarci.
«Mi scusi?» il funzionario dalla faccia allungata lo fissò senza capire.
«Avete delle denunce o altro tipo di documentazione su Ki-do Dama? È un artigiano, gestisce una bottega qui in città».
Il funzionario sparì per diversi minuti. Quando tornò aveva con sé un singolo documento.
L’irrequietezza gli ruggì in petto. Ringraziò il funzionario con compostezza.
Lasciò l’edificio con le parole del documento che gli ballavano davanti agli occhi, deridendolo.
“La richiesta d’asilo viene accolta da questo Consolato, poiché si ritiene che la vita del cittadino sia in pericolo qualora si allontanasse troppo dal territorio della Repubblica, o si spingesse nuovamente a Ovest”. Una delle poche frasi di senso compiuto in un documento pesantemente secretato. Che l’asilo fosse stato accordato a una vittima in buona fede o a un terrorista, era impossibile da capire. Dovette impegnarsi per soffocare il senso di colpa che alimentava la sua irrequietezza.
Pazienza. Ho tutto il tempo per capire cosa nasconde Ki-do Dama.
Fece un sospiro che assomigliava più a uno sbuffo, mentre tornava al suo alloggio per fare i bagagli. Alla fine dei conti lo avrebbe rivisto, il coboldo.