III - Flutti e scogli
Pane dei Nani, un tubero crudo e acqua piovana. Una razione due volte al giorno, doppia ogni settimo. Sei ore di sonno. Nessun riposo consentito prima del sesto dì: il viaggio di andata e ritorno dalle miniere è considerato più che sufficiente. Turni dai sette ai quindici giorni. Oltre settanta miglia, contando il percorso intero. Sul carro ti fanno salire solo se perdi un arto, hai i polmoni danneggiati dalla torba, o se sei cadavere. Se rallenti per parlare, una frustata; se ostruisci la colonna, cinque; se ti fermi, dieci o più: dipende dal secondino. Mentre mi spiegano le regole della detenzione, maledico i miei avi e i Quattro picchi, le Sei Voragini e il Gran Generale. Insieme alla mia barba e ai miei capelli non svanisce solo la mia libertà: anche la mia vita si spegnerà, ed è solo questione di giorni.
Frammento anonimo, Kolek-Bund (Kibildûm)
Kento lasciò che i gridolini elettrizzati del dinosauro gli disegnassero un sorriso sul volto.
«Attenta, la loro saliva brucia la pelle» avvertì con calma la ragazza dai capelli rosso-arancio che il giorno prima si era presentata come Odine.
Era da pochi minuti che si era messa a giocherellare con il piccolo sauro dal piumaggio rosso cupo, dando corda alla curiosità insistente di Tapas, la piccola peste.
Lei alzò appena lo sguardo sul vanara e rispose con un sorriso furbo, che si aprì come una falce di luna sul volto dipinto di colori notturni.
«Tranquillo, ho la scorza dura» e continuò a giocare con l’animaletto, facendogli il solletico e acchiappandogli scherzosamente il becco osseo mentre quello si rigirava sulla schiena.
Kento osservava la scena a gambe incrociate.
«Da quanto tempo viaggi con questi adorabili piccoletti?» chiese Odine, quasi ipnotizzata dai versi di deliziato divertimento di Tapas.
«Un anno, più o meno». Kento accarezzò distrattamente il corpicino verde-azzurro di Prana, acciambellato contro il suo fianco. «Le nostre strade si sono incrociate nei pressi di Keldûm. Mi seguono da allora».
«Oh! Quindi sei già stato in città?»
«Sì, per qualche giorno».
«Ma dai. E che posto è?»
«Non è un posto di cui sento particolare mancanza. Ho incontrato persone opportuniste ed egoiste a cui importava solo del denaro… come i contrabbandieri che tenevano questi due in gabbia».
Kento scosse la testa e pronunciò il nome che gli sciamani di Navisara avevano dato alla specie. «“Ladro sputante”» tradusse, poi. «Il loro posto non è qui, ma non posso riaccompagnarli a casa, per adesso. Per cui mi limito a controllare che non combinino guai. Soprattutto Tapas».
«Interessante!» esclamò Odine, che sembrava aver prestato attenzione solo all’ultima parte del discorso.
Il sole del tardo pomeriggio riscaldava la pietra lastricata davanti al “Nano Battente”. Sentiva il peso rassicurante di Prana e il suo russare leggero. Il vento gli portava alle narici l’odore della fucina. Il sussurro degli spiriti era impercettibile.
L’ombra proiettata da una figura che si avvicinava lo raggiunse prima della persona a cui apparteneva. Il nano dalla pelle cinerea li salutò con garbo.
«È in partenza anche lei?» domandò Kento con semplicità, dopo aver risposto al saluto e aver notato lo zaino che l’Inquisitore portava sulle spalle.
Questi posò il bagaglio a terra e rispose: «Pensavo di unirmi alla spedizione. Ho trovato delle informazioni in merito alla questione che vorrei verificare di persona. Il signor Dama è dentro?».
«Sta finendo di prepararsi» annuì Odine.
«Ah, bene». Con un cenno del capo, il nano entrò nella bottega.
La ragazza commentò: «Questa gita si fa sempre più affollata!».
«Non ti piace viaggiare in compagnia?» chiese Kento con genuino interesse.
Odine si strinse nelle spalle. «Dipende dalla compagnia, direi. Però gli occhi di un Inquisitore possono fare comodo».
In quel momento Tapas si rigirò nella presa leggera di Odine, in un guizzo di ludica agitazione; le morse le dita – un morso che Kento riteneva giocoso – e uno schizzo verdastro le ricoprì – uno schizzo che lo sciamano sapeva essere doloroso. Kento si protese in avanti, pronto ad aiutare, senza apprensione né fretta, ma non ce ne fu bisogno. Odine non batté ciglio, si prese giusto il tempo di osservare la saliva acida che le colava sul palmo prima di strofinarla sulla pietra della strada. Il vanara aveva visto la secrezione dei ladri sputanti corrodere persino legno e vecchie ossa. La usavano per intaccare le spesse uova dei sauri giganti e cibarsene, oltre che come strumento di difesa. La pelle di Odine era perfettamente intatta. Come se non fosse successo niente, riprese a giocare col dinosaurino.
«Accidenti» non si trattenne Kento «hai davvero la scorza dura».
Odine rise.
Ki-do emerse infine dalla bottega e la chiuse. Nel cielo, il sole aveva già iniziato a toccare l’orizzonte.
«Ci siamo tutti?» chiese con il suo usuale pragmatismo. Rispose Claudius, che era arrivato giusto qualche minuto prima: «Pronti a partire quando lo è lei».
«Avete tutto ciò che vi serve? Siamo ancora in tempo a fermarci al mercato per un rifornimento dell’ultimo minuto» proseguì il nano, e Kento sapeva che l’amico aveva ascoltato la risposta di Claudius con mezzo orecchio, la mente ancora concentrata sulle necessità del viaggio.
Ki-do si tastò il cinturone, accertandosi della presenza di una piccola figurina umanoide di pezza. Squadrò il gruppo davanti a sé e chiese burberamente: «Qualcuno ha bisogno di un feticcio?».
Ci fu un generale scuotimento di capi; Kento fu il primo a mostrare il piccolo totem di legno che portava con sé, intagliato a riprodurre le fattezze di un minuscolo coccodrillo. L’Inquisitore Ganus seguì a ruota, sfoderando una piccola lingua di metallo perfettamente liscia. Odine produsse dalle sue tasche una bambolina di corda, di poco dissimile da quella che Ki-do portava alla cintura. Claudius accarezzò distrattamente il frammento di cristallo che portava al collo. «Pare che siamo tutti abituati a viaggiare» esclamò Odine, quasi ridendo, quasi sbuffando.
Qualche istante di silenzio cadde sul gruppo. «Muoviamoci, o perderemo il traghetto» borbottò Ki-do, mettendosi alla testa della comitiva. Cominciarono a seguire i canali verso i moli occidentali, scambiando ogni tanto qualche parola di cortesia. Kento chiudeva flemmaticamente la fila, pensieroso. Non sapeva dire cosa passasse per la mente degli altri, specialmente di Odine e Claudius; non poteva dire con certezza quanti anni avessero, ma dovevano essere giovani, abbastanza giovani da non conoscere un mondo senza feticci. Ki-do e Ganus, poi, venivano dalle terre dell’Ovest, dove il male non era giunto. Solo il vanara aveva visto il mondo trasformarsi, se ne rese conto in quel momento. Ricordava bene Löwe, negli anni della sua gioventù, distrutta dal fuoco di un invasore. Eppure tutta la distruzione della città era niente, in confronto alla piaga che si era aperta anni e anni dopo in tutta la regione centrale del continente. Per molto tempo, lui stesso aveva ignorato che quel cambiamento fosse avvenuto, perso in meditazione nella foresta di Manuìn. Se non fosse stato per la Voce che lo aveva chiamato dal Vuoto, forse non lo avrebbe mai saputo. Era evidente che qualcosa fosse cambiato, se n’era accorto non appena aveva passato il crinale della Spinabianca. Non erano solo la flora e la fauna. Era l’aria stessa a essere pesante, malsana. Corrotta. Una corruzione che permeava tutte le zone selvagge. Le città della Repubblica avevano imparato ad arginare quella misteriosa e inarrestabile energia e si erano protette, ognuna come aveva potuto. I feticci erano arrivati in fretta – così gli era stato detto –, catalizzatori che assorbivano la corruzione al posto del portatore; ma erano solo una protezione temporanea, e dovevano essere cambiati spesso, se si viaggiava fra una città e l’altra. Soprattutto se si incappava in qualche creatura o in qualche luogo piegati dalla corruzione, si rischiava di soccombere più velocemente a essa a propria volta. Era la cosa peggiore di quella energia negativa: un virus che alimentava se stesso. Forse era per quello che a distanza di quattro decenni ancora non si era trovata una soluzione definitiva.
Il filo dei suoi pensieri si tuffò nelle acque del mare non appena sbucarono nella piazza dei moli, una zona della città che non era mai veramente calma. Il viavai di viaggiatori, braccianti, marinai e merci riempiva l’aria del brusio soddisfatto della vita civile.
La fila per i traghetti scorreva in fretta nonostante il gran numero di persone, una folla caotica solo in apparenza: si accomodarono sul battello in pochi minuti ed ebbero il tempo di guardarsi intorno abbondantemente prima che levassero l’ancora.
Fu per quello che Ki-do imprecò all’improvviso a mezza voce. «È uno scherzo. Da dove diavolo spunta fuori?»
Kento seguì lo sguardo contrariato dell’amico. Vicino alla prua, circondato da una piccola folla di spettatori che si andava formando, c’era il coboldo. Stava agitando una bacchetta con foga, i suoi movimenti disegnavano nastri luminosi e stelle luccicanti nello spazio di cielo sopra al battello, provocando “oooh” e “aaah” di stupore tra i presenti.
«Se quel delinquente mi sta seguendo…»
«Una conclusione piuttosto ardita a cui giungere» commentò Ganus «ma forse non del tutto errata. La terremo d’occhio… credo sia una “lei”, a proposito».
«Come fai a dirlo?» chiese Odine, a cui era bastato il tragitto dalla bottega ai moli per decidere di dare del tu a tutti.
«Intuizione» fece spallucce l’Inquisitore. «Ma non sono un esperto di creature draconiche, potrei benissimo sbagliarmi». A Kento sembrò che le parole scelte da Ganus celassero una verità non detta. La sincerità era un dono per lui fondamentale da offrire. Non considerava altrettanto importante riceverla; tenne per sé la sua realizzazione.
Odine a quel punto interpellò Claudius: «E tu che sei uno studioso di draghi e affini, sapresti dirlo?».
Claudius non alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e disse solo: «Sì».
Quando fu evidente che non avrebbe aggiunto altro, Ki-do insistette: «Beh, dunque?».
Claudius guardò il gruppo con un’espressione annoiata. «Saprei dirlo. Ma ciò comporterebbe smutandare un coboldo e trovo che sia piuttosto indecente farlo sul ponte di una nave, oltre che disgustoso in ogni circostanza. Rilassatevi. Femmina, maschio… È solo un coboldo. Se continuerà a seguirci anche una volta che saremo arrivati a Keldûm, lo affronteremo».
«A proposito di Keldûm» intervenne Ganus.
Informò il gruppo di ciò che aveva scoperto al mattino e concluse: «Quindi ricordiamoci di usare il nome “Kibildûm”, quando parleremo con le persone di lì».
Uno scoppio di applausi sembrò sottolineare la spiegazione dell’Inquisitore. Il coboldo aveva finito la sua esibizione improvvisata e si stava prodigando in profondi inchini, mentre una scimmia cappuccina passava con un sacchetto tra il pubblico, dondolando sulle zampe inferiori, a raccogliere qualche moneta offerta in apprezzamento al momento di svago.
«Da non credere». Ki-do scosse la testa. A Kento sfuggì un sorriso.
Riuscì ad accomodarsi a prua qualche ora più tardi, quando la maggior parte dei passeggeri si era ritirata sottocoperta per la notte. Tra le gambe incrociate era appollaiato Tapas, finalmente addormentato; Kento era riuscito a comprare la sua attenzione con carezze e cibo, per impedirgli di andarsene a zonzo e imboscarsi chissà dove sul battello. Prana, più timido del fratello e dall’indole più placida, gli era rimasto attaccato al fianco fin dall’inizio. Le stelle brillavano sul trio, ancelle rispettose di una nobile luna calante.
Lo sciamano cominciò la sua meditazione, il movimento delle onde e il loro suono dettavano il ritmo del suo respiro. Il silenzio rumoroso della natura gli premeva sulle orecchie. Il vento leggero sul volto lo rinfrescava e l’odore salmastro del mare gli pungeva le narici. Liberò lo spirito per abbracciare il suo legame con l’universo. Aprì la mente al sussurro degli spiriti naturali, un mormorio sommesso e nascosto tra il rumore dei flutti. Un avvertimento lo raggiunse, come un odore nell’aria; qualunque cosa li aspettasse a terra, aveva il tanfo sottile e appena percepibile della corruzione. Kento ne tollerò la presenza, senza accettarla, senza lasciarsene influenzare.
Lasciarsi trasportare dalla corrente, ma non esserne mai in balia: una differenza sottile che gli sciamani di Navisara imparavano con l’esperienza e la meditazione.
Fu il movimento repentino di Prana a riscuoterlo dalla sua trance. Il dinosauro aveva sollevato il capo, sul chi va là, per rivolgerlo alla scimmia cappuccina che se ne stava appollaiata sul parapetto a osservare la chiglia che tagliava le onde. Kento si guardò intorno, aspettandosi di vedere il coboldo, ma non c’era nessuno se non la piccola scimmietta che, vedendolo muoversi, si avvicinò a lui con calma, farfugliando.
«Buonasera» salutò Kento. La scimmia si sedette accanto al suo ginocchio, su cui posò una zampetta. Prana, seduto dall’altro lato, si mosse nervosamente. La scimmia lo guardò per un po’ e poi rivolse la sua attenzione altrove. Kento osservò il pelo lucido e folto. «Il coboldo ti tratta bene» constatò. La scimmia gli mostrò i denti in un sorriso animalesco e fece cenno di sì col capino. Kento le offrì una mano, per permetterle di annusarlo meglio. «Sei una bestiola intelligente» le disse. La scimmia rispose con uno sguardo pieno di raziocinio e un’espressione sul volto che sembrava volesse dire “Dimmi qualcosa che non so”.
«Oh, sei anche spiritosa. Tu e Tapas andreste d’accordo» ridacchiò lo sciamano.
La scimmia spostò il suo peso sul ginocchio di Kento, allungandosi sulla sua gamba. Rimase a farsi accarezzare per qualche minuto, prendendosi via via sempre più libertà: dallo sdraiarsi contro di lui passò all’arrampicarsi sulle sue spalle, fino all’appoggiarsi al suo capo, la coda che ciondolava intorno al collo del vanara come un’esotica sciarpa. A quel punto, quasi come per magia, un frammento di pergamena scivolò sul grembo di Kento, sopra al dorso russante di Tapas. Lo prese con delicata curiosità. In una scrittura frettolosa, disordinata e priva di punteggiatura, lesse:
Saluti da me a te e tuoi nobili compagni Io è confratello di Figli di Deserto noi è gruppo di guaritori che aiuta chi vuole attraversare dune Purtroppo no tutti quelli che viaggia in Deserto è brave persone Una notte tesoro di mia gente viene rubato da furfante che noi ospitava Io insegue ladro per tutto continente e fa finta di essere artista di strada per scovare ladro Ha trovato sue tracce fino a Nano-che-batte Io sospetta che può essere fra persone che viaggia con te Acqua in bocca o ladro scappa ancora A Theresa tu piace
Kento rimase a considerare quel pantano di parole in silenzio. Gli fu difficile, perché davvero non sapeva come prenderle: fatta eccezione per Ki-do, non aveva scambiato con i suoi nuovi compagni di viaggio che qualche conversazione e, se riguardo all’innocenza dell’amico avrebbe messo la mano sul fuoco, era privo di opinioni su quella degli altri tre. Tuttavia, sarebbe stato ingenuo rigettare la fumosa accusa del coboldo, tanto quanto aggressivo accettarla. Considerò pertanto quella confessione con la stessa energia con cui aveva recepito l’avvertimento degli spiriti; ne tollerò l’esistenza, ma non se ne lasciò influenzare.
Nel frattempo, la piccola Theresa aveva cominciato a esplorargli la pelliccia in cerca di insetti e parassiti: non ne trovò, ma in compenso toccò il limite di Kento. Con pacata decisione la rimosse dal comodo sedile fornito dalle sue scapole, posandola di fronte a sé. La scimmia lo guardò con occhi – troppo – intelligenti; un’ombra di furbizia li attraversò, l’espressione di una bambina che sta per combinare un guaio e sa che non ne pagherà le conseguenze. Prima che Kento potesse fermarla, saltò sulla groppa di Tapas e gli strattonò la coda, rimbalzando poi dalle spalle del vanara al parapetto dell’imbarcazione. Kento fece del suo meglio per trattenere il sovreccitato Tapas e il nervoso Prana ed evitare che si mettessero a rincorrerla svegliando tutti i passeggeri nel processo, e quando sollevò lo sguardo Theresa era sparita, e con lei il frammento di pergamena.
Attraccarono alle prime luci dell’alba. Come posarono le zampe a terra, i due ladri sputanti si strinsero a Kento. Riconoscevano l’odore della città ed erano in cauto allarme. Lo sciamano cercò di trasmettere loro la sua calma, ma a dirla tutta, là sul molo di Keldûm, non gli dispiaceva quella cautela, che così raramente esibivano. Si incamminò col resto del gruppo per le strade del porto, già in pieno movimento nonostante la buon’ora. Guidati da Ki-do, si rifugiarono in una locanda per una colazione veloce – Kento attirò un’occhiataccia dell’oste quando rifiutò la carne, ma alla fine riuscì a farsi portare un frutto dall’aspetto rinsecchito.
Pieni di energia, nonostante il riposo non facile a causa del rollare del traghetto, i compagni improvvisati si buttarono in strada.
«In questa parte della città dobbiamo fare riferimento al clan Odo» li istruì Ki-do, indicando un simbolo intagliato sulla porta di un magazzino. Rappresentava una roccia, una sorta di scoglio, su cui si infrangeva un’onda; attorcigliato fra le crepe, c’era un serpente con la testa sollevata.
«Supervisionano tutte le attività di commercio e di rifornimento, soprattutto alimentare. Penso che sia una buona idea cominciare la nostra indagine da qui, visto che tutte le merci transitano da questo quartiere. E nel pomeriggio, magari, proviamo a rintracciare Cutter, il mio agente».
Su suggerimento dell’artigiano, cominciarono dunque a fare domande al porto riguardo alla situazione del carico disperso e dei materiali mancanti. Si resero conto molto presto che ottenere risposte sarebbe stato più difficile del previsto: innanzitutto, i lavoratori, umani e nani, che si fermavano a prestare loro anche solo una briciola di attenzione erano rari. C’era una generale atmosfera indaffarata che faceva apparire la gente scorbutica, anche quando si diceva disponibile a rispondere a qualche domanda. Alle domande dirette, poi, ricevevano risposte evasive, scuse, suggerimenti di rivolgersi a questo o quell’altro tizio che aveva una barca due moli più giù. Anche nelle taverne e nelle locande, notoriamente abbondanti di chiacchieroni, non ottenevano altro che scrollate di spalle e smorfie disinteressate. Dopo l’ennesimo buco nell’acqua, Ganus si offrì di tentare un approccio più formale e si avviò da solo verso la sede del Consolato della città, esortando gli altri a non abbattersi e proseguire con la ricerca, salvo tornare, nemmeno una mezz’ora dopo, accigliato e irritato.
«È vuoto» disse, con una voce in cui risuonava tutta la sua incredulità. «Non è chiuso, è proprio vuoto. Ho chiesto in giro come fosse possibile. Prima mi hanno riso in faccia e poi mi hanno detto che è così “e basta”. Pare che il Console sia morto e dato che i clan maggiori non riescono ad accordarsi su chi dovrebbe succedergli, preferiscono lasciare vuoto il seggio del potere centrale. È…» parve cercare freneticamente un aggettivo che rendesse giustizia al suo pensiero in merito e infine sbottò: «…assurdo».
«Anche noi non abbiamo trovato collaborazione» Odine si appoggiò la lancia sulle spalle, un movimento che sembrava aiutarla a riflettere.
Kento condivideva la stizza del gruppo. Come la prima volta che l’aveva visitata, quella città non gli piaceva per niente. L’atmosfera di scontrosità era proprio come la ricordava, forse anche peggiore; sembrava che un’ulteriore asprezza adombrasse gli abitanti di Keldûm, al punto da renderli chiusi e inaccessibili a chiunque venisse da fuori.
«Che si fa, adesso?» chiese Claudius a Ki-do. Il nano fece per rispondere, ma fu una voce gracchiante a riempire l’aria. Materializzato non si sa da dove, il coboldo rispose:
«Noi va da clan Kato!».
Le reazioni del gruppo furono varie, ma nessuno riuscì a nascondere un piccolo sobbalzo. Kento si guardò intorno, ma se Theresa era nei paraggi non riuscì a scorgerla.
«“Noi” non andiamo proprio da nessuna parte» esclamò Ki-do, che si riprese per primo dalla sorpresa grazie al testardo risentimento che provava nei confronti della lucertola bipede.
«Ah, ok. Allora io va da solo e poi dice voi che cos’altro io scopre» sollevò le spalle lui – o lei.
In contemporanea, Odine e Ganus chiesero rispettivamente «Il clan Kato?» e «Hai scoperto qualcosa?».
Il coboldo, che già si stava allontanando, si fermò e si voltò a guardarli teatralmente. «Voi vuole sapere?» chiese.
Ki-do fece per protestare, ma Ganus fece un passo avanti e guardò il resto dei compagni di viaggio. «Abbiamo passato mezza giornata a girare in tondo e non abbiamo nulla di tangibile in mano. Cosa abbiamo da perdere?»
Ki-do borbottò qualcosa nella barba, ma non replicò. Kento gli posò una mano sulla spalla nel tentativo di dargli supporto. Sotto la sua presa, sentì la tensione dell’amico sciogliersi, seppur solo lievemente.
«Forza, parla» abbaiò al coboldo.
Questi si fermò a gambe larghe in mezzo al semicerchio di persone, tutte più alte di lui, e sembrò godersi l’attenzione. «Dunque» cominciò, e dal respiro che seguì Kento anticipò il fiume di parole che si riversò su tutti loro.
«Io non è mai stato in città prima d’ora – voi sapeva che gente di qui chiama città “Kibildûm”? che vuol dire “casa di argento” e non “casa di calvo” che è “Keldûm” –, comunque io fa domande in giro tipo “eeehi, ma perché carico di materiali no arriva?” e “eeehi, ma con chi parla io se cerca materiali per bottega di fabbro?”. Gente di porto dice me che materiali manca un po’ dappertutto, anche se fuori di città dice che no, materiali c’è, va tutto bene, però non va tutto bene, gente di miniere è arrabbiata e ha paura – io non è ancora riuscito a sapere perché – ma gente di porto dice me di chiedere a clan Kato, che controlla fucine e traffico da miniere fuori città, dice che loro sa di sicuro».
Nel momento di stordimento che seguì, si rivolse in particolare a Ganus.
«Comunque gente di porto dice che Inquisitore è in giro a fare domande e a loro no piace. Gente di Kibildûm ha dente avvelenato – si dice così, vero? – con “governo centrale”». Dopo un’altra scrollata di spalle aggiunse, come a sottolineare ulteriormente il concetto, o a rigirare il coltello nella piaga, si scoprì a pensare Kento: «Gente di qui odia gente di Brahmya».
Ganus non mostrò di aver accusato il commento e anzi, sorrise con pacatezza.
«Ottimo lavoro» disse semplicemente.
Il coboldo fece un inchino profondo e un piccolo saltello. «Beh, io avvia in quartiere di fucine, voi raggiunge me, sì?» e prima di ricevere una risposta sparì fra i vicoli disordinati del porto.
Ganus guardò con calma il resto dei presenti. «Pare che abbiamo una pista».
Ki-do esplose: «Vogliamo davvero fidarci di quel furfante?».
«Più che altro, vogliamo davvero fidarci di un coboldo?» gli fece eco Claudius «È poco più che un animale».
«È riuscita a farsi dire di Kibildûm, tanto per cominciare, e sappiamo che quella parte è corretta» considerò Ganus.
«Qualcuno conosce il clan Kato?» chiese Odine, rivolgendosi ai due nani della comitiva.
«Ha ragione anche su quello» ammise Ki-do di malavoglia. «Kato è il clan dei fabbri, si occupano della produzione di armi e altri manufatti. Immagino che, se davvero la situazione dei materiali mancanti è diffusa, debbano per forza saperne qualcosa».
«Credo che tentare non possa nuocere, in questa particolare situazione» ragionò Ganus, e con un gesto invitò gli altri a seguirlo verso l’entroterra, nella direzione generale in cui era sparito il coboldo.
Odine commentò con un sorriso: «Un Inquisitore di Brahmya va a fare domande a dei produttori di armi di una città che non sopporta lo Shogunato. La cosa si fa interessante!», poi si avviò dietro a Ganus. Claudius fece altrettanto, scuotendo la testa.
Kento guardò Ki-do, e con un cenno del capo lo convinse a seguire gli altri. Mentre camminava, sospirando e aggrottando la fronte, il nano si sfogò a bassa voce con l’amico.
«Non riesco a sopportarlo, davvero. Ieri mi ha messo a soqquadro tutto il retrobottega. È stato irrispettoso e confusionario, ha infilato le zampacce dappertutto. E la sua scimmia, poi…! Si è messa a lanciare feci contro gli Omuncoli – feci, Kento!»
«Sono decisamente due terremoti» convenne Kento.
«Per fortuna non ha rubato niente… sai, avevo paura che si fosse intascato qualcosa. I materiali già scarseggiano, ci manca solo che un sedicente aspirante artigiano faccia sparire i pochi che ho in bottega. O quelli veramente importanti» la sua mano sfiorò la scarsella che portava al fianco.
«Aspirante artigiano?»
«Sì, ha fatto tutta un’introduzione, diceva che nella sua famiglia sono tutti guaritori, ma che a lui interessavano gli ingranaggi, o qualcosa del genere. Ha lavorato per gentaglia più o meno rispettabile e ha costruito dei piccoli marchingegni incantati».
«Davvero?» Kento si fece pensieroso «Non è quello che ha detto a me».
«E tu quando ci hai parlato?» chiese Ki-do, quasi offeso.
«Mai. Ma la scimmia mi ha recapitato un biglietto. Se l’è ripreso, ma c’era scritto che sta cercando un ladro. Qualcuno ha rubato qualcosa di importante per lui e la sua gente, una comunità di guaritori del deserto».
«Piccolo bugiardo» si scaldò subito Ki-do.
Kento lo invitò a calmarsi. Tuttavia capiva il fervore dell’amico. Per quanto accettasse la mancanza di onestà nei suoi confronti, la tendenza alla disonestà dimostrata dal coboldo lo crucciava.
«Lo terremo d’occhio» promise.