IV - La casa dell'argento
Siamo in pochi a voler agire, ma da quando quattro notti fa hanno fatto fuori il figlio minore di Kato a forza di frustate, nemmeno gli amici degli aguzzini ci ostacoleranno. Ho parlato con Odo, e anche lui ci sta: è magro e denutrito, ha perso tutti i figli maschi mentre la sua compagna è in attesa di sfornarne uno. Vuole proteggere la famiglia, non c’è niente di più onorevole. Gorunn in cella mi ha detto che hanno diminuito ulteriormente il rancio. Pessima notizia: per noi, perché i topi ormai sono finiti; per loro, perché il fuoco della nostra rivolta li ridurrà in cenere.
Y. Ungart, Diario della ribellione, Kibildûm (Archivio Celato)
Dovevano essere dorati. Non oro vero, chiaramente. Non indossava nient’altro che denunciasse quel tipo di ricchezza. Placcati o laminati, forse addirittura colorati. Era proprio il colore di quei bottoni ad aver attirato la sua attenzione, la brillantezza lucida dell’oro giallo, così fuori posto in mezzo a tutto l’argento, l’acciaio e il metallo chiaro che aveva visto al collo, ai polsi, ai lobi, alle cinture, alle caviglie degli abitanti della città sin dal momento dell’arrivo al porto. Persino le barbe, le basette e i capelli erano intrecciati di fili argentati e ninnoli, anellini e perle di metallo. La giacca stessa su cui quei bottoni facevano la loro pacchiana figura era adornata da ricami bianco-argentei, la stoffa di un verde smorto impreziosita e appesantita da disegni geometrici pieni di angoli rigidi come la tempra dei nani. Anche i bottoni avevano un motivo geometrico inciso lungo il bordo ovale, un’incisione vistosa e precisa e, soprattutto, completamente diversa da quella della giacca.
Ha sostituito i bottoni oppure l’ha comprata così? Bisogna avere il senso estetico di un goblin per indossare una roba del genere, pensò, nondimeno affascinato dal superficiale mistero che quei bottoni presentavano alla sua mente annoiata. Si chiese che sensazione dovesse offrire alla punta dei polpastrelli la decorazione incisa sul metallo lucente e si dispiacque sinceramente di non poterlo scoprire. D’altronde, un’invasione così eclatante dello spazio personale di un individuo era ingiustificabile… specie se l’individuo in questione era uno sconosciuto, un passante e un nano dal muso ingrugnito. Doveva essere un qualche tipo di mercante: sotto la sbagliatissima giacca portava una blusa e un modello di pantaloni dal cavallo largo che aveva intravisto anche al porto. Proprio mentre considerava l’idea di chiedergli quale sarto avesse concepito la giacca e se i bottoni fossero arrivati con essa, il nano imbronciato smise di proseguire lungo la stessa direzione e si allontanò verso una strada laterale. Fu solo allora che Claudius riuscì a distogliere l’attenzione dal tipo e dai bottoni della sua giacca – seppur a fatica – e a emergere nel bel mezzo di un discorso avviato.
«Keva quindi è una sorta di “nome adottivo”?» stava chiedendo Odine.
«Si potrebbe dire così, sì. Ovviamente, a livello culturale è più complesso» rispose burberamente Ki-do. «I nomi dei clan minori, “adottati” da quelli maggiori, hanno un’origine interessante che risale al tempo della ribellione».
Claudius represse uno sbadiglio. Per fortuna, svoltando per immettersi nella via principale che tagliava il quartiere – case dal soffitto un po’ troppo basso per la sua altezza, porte e finestre più larghe che lunghe, odore di fuoco, quello dei camini e, soprattutto, delle fucine – incapparono in una piacevole distrazione. La strada era bloccata da un capannello di persone, una folla placida, ma folta, accalcata all’imbocco dell’incrocio ampio.
«Che succede?» chiese Odine a nessuno in particolare, e per prima si avvicinò alla calca. I compagni, non sapendo bene come aggirare il contrattempo, la seguirono. Mormorii e bisbigli nell’aspra lingua dei nani percorrevano l’assembramento in fremiti d’attesa.
Quell’idioma gli era sconosciuto, per cui Claudius si abbassò a sussurrare all’indirizzo di Ganus:
«Cosa stanno dicendo?».
«Stanno aspettando qualcosa… no, qualcuno» risposte l’Inquisitore, che pure aveva le orecchie tese a cogliere le parole dei presenti. «Dicono che il figlio del Bund è tornato».
«Cos’è un “Bund”?» bisbigliò Odine.
«Letteralmente vuol dire “capo”. È un Capoclan» intervenne Ki-do.
Nell’attesa che il personaggio si manifestasse, Claudius tornò a concentrarsi sui curiosi accessori che vedeva sfoggiare dagli abitanti di Kibildûm. Osservò una coppia: lui aveva delle specie di perle di legno scuro e metallo intrecciate nella barba, e nelle basette irsute di lei sottili fili d’argento catturavano la luce del sole. Poco più in là un’altra nana si aggiustava la spessa cavigliera d’acciaio che portava al piede destro, dalla quale pendeva un singolo anello lavorato. Anche gli umani non mancavano, nella folla; alcuni sembravano aver adottato il gusto locale e sfoggiavano questo o quel monile, ma sembravano differenziarsi – Per rispetto o per obbligo?, si chiese – nella scelta dei materiali. Non era infatti il chiarore dell’argento, ma i toni scuri del bronzo e dell’ottone, ad arricchire l’abbigliamento della gente alta.
«Come mai tutto questo argento?» si decise a chiedere ai due nani del gruppo.
Rispose Ganus: «Per via delle miniere. I prigionieri dello Shogunato venivano portati lì a lavorare per estrarre l’argento, ora è diventato un simbolo di libertà».
Sembrò voler aggiungere qualcosa, ma il resto delle sue parole venne sommerso dal rumoreggiare della popolazione che li circondava. Qualcuno inneggiava, altri si lasciarono andare a un controllato battere di mani. Avvantaggiato dalla sua altezza, che superava abbondantemente la media nanica, Claudius riuscì a vedere l’inconsueto spettacolo che avanzava lungo la strada, come in processione. Una decina di nani in assetto da guerra – armature complete, elmi scintillanti, i fianchi carichi di spade, asce, martelli e picche – aprivano un corteo minaccioso. Dietro di loro, spaventoso e affascinante, avanzava un dinosauro delle terre dell’Ovest; grande come un piccolo cavallo, un maestoso rettile dalle squame di un marrone verdastro, bardato e sellato, gli strilli penetranti soffocati appena da una museruola di ferro. Sul dorso dell’impressionante creatura sedeva un nano. Se i soldati che lo avevano anticipato avevano ispirato ovazioni e applausi, un silenzio rispettoso e carico di timore reverenziale sembrava scivolare sulla folla al suo passaggio. Capelli e barba brizzolati, baffi lunghi e curati, il guerriero guardava fisso davanti a sé in un’impeccabile dimostrazione di disciplina marziale, battendo raramente le palpebre sugli occhi rossi. L’armatura che indossava – Per essere così brillante, deve essere Argento Nanico, pensò – presentava un’abbondanza di incisioni decorative, la più evidente delle quali era l’ascia da battaglia immortalata sulla piastra nell’atto di tagliare la testa di un serpente sibilante.
«È il simbolo dei Kato» sospirò rumorosamente Ki-do, indicando a beneficio dei compagni.
Claudius condivideva la curiosità di Odine, tutta presa a sporgersi in punta di piedi – non letteralmente, non era così bassa – per osservare meglio, mentre Ganus e Ki-do sembravano quasi scossi, persi nella contemplazione dell’inattesa parata. Fu Kento, però, a vincere la sua attenzione – e come poteva essere altrimenti, il primo vanara con cui aveva avuto il piacere di condividere una conversazione – quando notò il suo pugno stretto e lo sguardo incupito. Mentre l’interesse degli altri era dedicato al nano e al suo portamento militare, Claudius notò come gli occhi di Kento fissassero la museruola e le redini rinforzate e il frustino che teneva a bada il sauro. Attese che il corteo passasse oltre e poi gli si rivolse.
«Tutto bene, Kento?»
Il vanara si girò a guardarlo e scosse soltanto la testa, con un’espressione amareggiata che stonava particolarmente in mezzo alla folla ammirata.
«Prima ce ne andremo da questa città e meglio sarà» si limitò a dire, rigidamente.
«Concordo» annuì Ki-do, ripresosi dalla visione inaspettata, negli occhi un luccichio che andava spegnendosi, tradendo un moto di nostalgia che sembrava averlo colto.
Non dovettero aspettare molto perché la folla defluisse, liberando il passaggio, ogni traccia di curiosità e aspettativa scomparsa dietro a Kato Junior e alla sua pericolosa cavalcatura. Ripresero il cammino, inoltrandosi nel cuore del quartiere fabbrile.
Cominciarono a sentire sempre più forti e presenti i rumori di metallo su metallo, l’odore di carbone e olio caratteristico delle forge attive. Poi cominciarono ad avvistarle, una dopo l’altra, fucine a vista, spaziose e piene di nani indaffarati.
«Per esserci scarsità di materiali, sembra che gli artigiani qui lavorino a pieno regime» considerò Ganus, pensoso.
Ki-do lo guardò e si strinse nelle spalle, lasciando cadere la considerazione dell’Inquisitore.
L’interesse di Claudius nella conversazione in corso si dissolse come nebbia al sole. Tornò a esplorare con lo sguardo i passanti e il loro curioso senso di stile. Sempre più presente nel loro abbigliamento era il metallo, e non più per ragioni puramente estetiche: si cominciavano a vedere pezzi di armature, spallacci, gambali, mezzi guanti in maglia, cotte e corazze. Neppure vagamente preziose e impreziosite come quella del Kato che avevano incrociato pocanzi, nondimeno l’esigenza militare in quel quartiere si sposava quasi completamente con l’estetica.
Persino nelle insegne dei negozi e agli angoli delle strade figuravano simboli più o meno stilizzati di armi, e se per un armaiolo era una scelta sensata, Claudius faticava a trovare di buon gusto una bottega di abbigliamento o antiquaria con un paio di picche incrociate, o due spade rivolte verso l’alto, o ancora uno scudo decorato come insegna. Finì di osservare un tizio con un paio di minacciosi stivali di ferro e si accorse che stavano ancora camminando.
Claudius si rivolse a mezza voce a Kento. «Dov’è che stiamo andando, di preciso?»
«Una delle fucine dei Kato, il “Martello di Keva”» rispose il vanara con pacatezza.
«Chiaro».
«Cutter lavorava con diverse fucine, ma è lì che aveva ordinato i materiali questa volta».
«Giusto».
Un attimo di silenzio si adagiò fra loro.
«E Cutter è…» Claudius imboccò la domanda senza fretta.
«L’agente di Ki-do qui a Kel… Kibildûm».
«L’agente commerciale, già».
Il vanara lo guardò senza giudizio.
«Sembri un po’ distratto, Claudius. Va tutto bene?» gli chiese.
«Avevo la mente altrove» rispose diplomaticamente, limitandosi a pensare soltanto a quanto gli risultassero noiose le spiegazioni di Ki-do e a quanto facilmente riusciva a distrarsi quando questi apriva bocca. Kento gli dedicò un sorriso, forse ispirato dalla comprensione di ciò che Claudius aveva evitato di dire.
Non ci volle molto prima che la mente dello studioso tornasse a vagare tra i bagliori dell’argento.
«ATTENTI!»
Il grido spezzò la noiosa camminata come il vecchio filo di una cucitura troppo tesa.
La sorpresa di Claudius gli impedì di agire con prontezza alla caduta dell’impalcatura di legno che si stava rovesciando sulla via. Fortunatamente, lui e Kento erano rimasti un po’ indietro e dovettero solo ripararsi il naso e gli occhi dalla polvere che invase la strada. Quando il fracasso del legno che si schiantava sulla pietra cessò, Ki-do fece eco al suo stesso allarme: «State tutti bene?». In monosillabi agitati, l’intero gruppo si confermò illeso. Claudius non fu il solo a rivolgere l’attenzione all’edificio da cui era provenuto l’inatteso crollo; una semplice casa a due piani, con la facciata in rifacimento, da cui si era improvvisamente staccata una parte del ponteggio. Il cantiere era – fortunatamente, o magari vantaggiosamente – deserto.
«Lassù!» indicò Ganus con urgenza. Sul tetto fece capolino per un attimo la figura di un nano che, vedendosi scoperto, subito si ritrasse e cominciò a correre.
Kento scattò verso l’impalcatura superstite e iniziò ad arrampicarsi. Il vanara era agile, si lanciava da un palo al successivo con l’equilibrio della sua gente, la coda che accompagnava i movimenti per facilitare la stabilità. Tanto più impressionante era la facilità con cui Odine prese a stargli dietro, scalando la parete e guadagnando terreno in fretta, nonostante gli alti zoccoli infradito stondati che portava ai piedi, del tutto inadatti al compito.
Ki-do e Ganus si erano lanciati lungo la strada, seguendo il tragitto del fuggitivo da terra, insieme ai due dinosauri che Kento si portava dietro. Claudius mormorò parole arcane in lingua antica e sentì l’energia magica attraversargli i muscoli: spalancò le ali e con un battito fu in volo – non che sbatterle fosse funzionale, non ancora, ma l’apparenza era fondamentale. Si sollevò fin sopra al tetto e per un attimo ebbe sott’occhio i quattro compagni e i loro faticosi movimenti. Si lanciò in avanti, tagliando l’aria, all’inseguimento del corridore da un tetto all’altro. Ora riusciva a vederlo meglio, gli abiti neri e semplici, i capelli scuri legati dietro la testa e un paio di pugnali infilati nel cinturone di cuoio. Stava raggiungendo il punto dove i tetti terminavano a strapiombo su un incrocio, e per raggiungere il successivo era necessario eseguire un salto di un paio di metri – non impossibile, ma certamente pericoloso. Claudius vide il nano prepararsi a saltare. Ormai gli era alle spalle.
«Cosa credi di fare?» gli indirizzò. Forse fu la sorpresa di sentire uno degli inseguitori così vicino. Forse un semplice errore di calcolo. Nemmeno Claudius capì bene la dinamica dei momenti successivi, se fu il ginocchio a cedere per la fatica della corsa, o un movimento sbagliato della caviglia. A posteriori si chiese addirittura se il tizio non si fosse semplicemente arreso e avesse cercato una via d’uscita drastica e definitiva. Il salto partì e fu chiaro da subito che non sarebbe bastato. Claudius tese le braccia per agguantare il nano in caduta libera. Le mani afferrarono qualcosa, ma il peso era troppo, e la stoffa gli scivolò immediatamente dalla presa. Il corpo si schiantò due piani più in basso, senza neanche un grido.
Claudius osservò dall’alto la sagoma spezzata. Pochi istanti dopo, Kento e Odine raggiunsero il limitare del tetto e si arrestarono, respirando faticosamente.
«È caduto» rispose ai loro sguardi interrogativi. «Che idiota».
Planò lentamente nel vicolo, chiudendo le ali. Atterrò in tempo per vedere il guizzo di una coda pelosa sparire nell’oscurità – un randagio terrorizzato dal caos improvviso.
Si avvicinò al nano, abbassandosi a osservarlo, ma se c’erano segni distintivi, non sapeva quali fossero: gli abiti erano anonimi come li aveva intravisti, aveva una fascia di capelli rasata sopra l’orecchio destro, un particolare estetico che aveva già notato in giro, non portava monili, se non un anello argentato a fermare la barba sotto al mento. Avrebbe cercato di girare il corpo, se non fosse stato per il rumore di passi in avvicinamento e le grida in aspro Nanico. Si voltò verso l’apertura del vicolo per vedere Ganus e Ki-do raggiungerlo nello stesso momento di un gruppo di nani armati e incazzati. Seguì uno scambio teso, con la maggior parte del gruppo che guardava in cagnesco l’Inquisitore e uno stressato ma deciso Ki-do che rispondeva sbrigativamente. Dal suo gesticolare, Claudius capì che stava spiegando come si era svolto l’incidente – o per essere corretti, l’imboscata – con l’impalcatura. Due degli armati si avvicinarono al corpo e Claudius ritenne prudente fare un passo indietro, mentre quelli prendevano a ispezionare le tasche e la scarsella, senza trovare niente che fosse degno di nota. Persino le armi erano poco interessanti. Intanto anche Kento e Odine avevano raggiunto la base dell’edificio, calandosi lungo la parete. I due nani finirono di esaminare il corpo e gridarono qualcosa al resto del loro gruppo. Nuove esclamazioni rabbiose si sollevarono mentre i due presero a trascinare il corpo fuori dal vicolo. Qualcuno sputò per terra mentre passavano. Ancora uno scambio fra loro e Ki-do, poi il gruppo si allontanò, una parte che si avviava correndo verso il crollo, il resto scortando il cadavere chissà dove.
«Insomma, che è successo?» chiese Odine «Sappiamo chi fosse quel tipo?».
«Dicono che fosse parte degli Ungart» fece spallucce Ganus.
«Da cosa l’hanno capito? Addosso non aveva nulla di particolare» chiese Claudius.
Ki-do rispose burberamente: «Proprio per quello. Ungart è uno dei quattro clan maggiori, ma i suoi membri sono sfuggenti e loschi, anche per gli standard di qui».
Claudius aggrottò le sopracciglia. «Aspetti, mi faccia capire» chiese, aggiustandosi i polsini arricciati dal vento «Lo credono uno del clan Ungart perché non aveva segni identificativi addosso».
«Esatto».
«È una conclusione affrettata da raggiungere senza prove di sorta» affermò Ganus.
«Non vedo insegne di alcun tipo neanche addosso a lei, Ki-do, questo fa di lei un Ungart?» fece Claudius, irritato.
«La prego, non lo dica ad alta voce» sospirò Ki-do.
«E io ho le ali, ma questo non mi rende un canarino» proseguì imperterrito lo studioso «Guarda un po’, Kento ha la coda, non sapevo che fosse un cane. E se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stata un carro».
«La cosa ti turba, Claudius?» osservò divertita Odine.
«Certo che mi turba. Non è possibile ragionare in modo così superficiale».
Ganus intervenne, placido: «Concordo con lei, Claudius, ma cerchiamo di calmarci e analizzare i fatti. Un uomo ha appena cercato di ucciderci, o quantomeno di ferirci, e poi è precipitato ed è morto sotto ai nostri occhi».
Odine sbuffò: «E questo dovrebbe calmarci?».
«Credo di star ancora elaborando l’accaduto» ammise l’Inquisitore. «Non posso fare a meno di pensare che l’attacco fosse indirizzato…»
«A te» completò Kento, abbandonando le formalità.
Ci fu un momento di silenzio, mentre tutto il gruppo contemplava le insegne inequivocabili che decoravano l’uniforme di Ganus.
Odine considerò, quasi casualmente: «Com’è che era? Ah, sì. “Gente di qui odia gente di Brahmya”».
«Torno subito» sospirò Ganus, dirigendosi alla bottega più vicina.
L’insegna della fucina era grande, colorata e semplice. Un enorme martello da guerra sollevato sopra a un’incudine; su quest’ultima era inciso lo stemma dei Kato. Il tutto era accompagnato da una serie di rune naniche, sotto di esse si leggeva la traslitterazione in lettere dell’alfabeto Comune.
«“Moukari Keva”» pronunciò Odine, scandendo bene.
«Non mettere tutta questa enfasi sulla “o”» la corresse Ki-do, tutto compreso nel suo ruolo di insegnante di lingua nanica.
Normalmente anche Claudius sarebbe stato interessato. Non per nulla era un linguista. Al momento però trovava difficile concentrarsi, con Ganus accanto che sembrava un gargoyle.
Avrebbe potuto prendere una tunica di qualunque colore. Il grigio dell’abito e il grigio della pelle del nano erano pressoché identici: la tunica larga, indossata sopra ai vestiti da Inquisitore, era di un materiale rude ed economico che contribuiva all’effetto da statua vivente. Anche il portamento di Ganus aumentava la sensazione di trovarsi di fronte a un pessimo artista di strada mascherato da monumento di chissà quale personalità della storia nanica.
Il calore che lo investì gli comunicò che aveva seguito il mimo-in-pausa-pranzo all’interno della fucina. Si guardò intorno e prese a osservare i fabbri alle prese con la forgia; molti indossavano una sorta di maschera di cuoio rigido che copriva la parte inferiore della faccia e si estendeva fino a metà del torso, a protezione delle lunghe barbe, mentre altri le portavano legate accuratamente dietro al collo. Uno dei lavoratori adocchiò il gruppetto impalato sull’ingresso ed emise una specie di grugnito. Ki-do ebbe uno scambio con lui – le poche parole che colse nel flusso di lingua nanica erano “Ki-do Dama”, “Keva” e “Francis Cutter”, tutti e tre nomi, l’ultimo dei quali dal suono decisamente non nanesco. Il nano grugnì di nuovo, stavolta all’indirizzo dei suoi compagni, alcuni dei quali sollevarono lo sguardo.
Si avvicinò un nano. A occhio, sembrava più giovane di Ki-do e più maturo di Ganus, ma il suo aspetto era invecchiato dalla barba plumbea – ingrigita dalla fuliggine della fucina. Entrambe le sopracciglia erano rasate e sostituite da una serie di rune naniche tatuate fittamente. Si tolse il grembiule di cuoio, scoprendo una camicia molto semplice, color terra bruciata. Un cinturone di pelle invecchiata gli cingeva la vita, con una grossa fibbia d’argento a forma di martello a chiuderla.
La conversazione iniziò in Nanico, ma Nibli Keva passò velocemente al Comune quando si rese conto che più di metà degli interlocutori non era in grado di capirlo.
«I materiali che hai ordinato sono arrivati in città la scorsa settimana» disse, rivolgendosi a Ki-do in modo fin troppo informale per il costume nanico.
«Grandioso» Ki-do si aggiustò la cintura «Allora lo ritiro e tolgo il disturbo».
Keva scosse la testa. «Non è possibile».
«Come sarebbe?»
«Lo abbiamo sequestrato» spiegò il fabbro, come fosse la cosa più normale del mondo.
«Sequestrato?» si crucciò Ki-do «Quel materiale era già stato pagato, mi spetta!».
«Cutter non lo ha ritirato entro il tempo concesso, quindi lo abbiamo usato».
«Come sarebbe? Perché mai non lo avrebbe ritirato?»
Keva tirò su le spalle e le lasciò ricadere, incupendosi.
«Cutter è andato su alle miniere. Non è ancora tornato».
Intervenne Ganus: «Ed è normale che la merce venga usata così presto? Specie quando si tratta di un carico già pagato».
Keva spostò lo sguardo su di lui, gli occhi si strinsero leggermente. «No, non è normale» disse infine «Ma questi non sono tempi normali. Abbiamo bisogno di tutto il materiale disponibile».
«A cosa è dovuta la… particolarità, di questi tempi?» si trovò a chiedere Claudius, curioso suo malgrado.
«Alla morte del Console. I Bund si sono riuniti per accordarsi sul successore. Bund Odo è stato ragionevole nell’appoggiare il nostro Bund. Ma non ci aspettavamo di essere pugnalati alle spalle da Bund Gorunn» e sputò per terra a sottolineare il proprio disprezzo. «Quei bastardi hanno iniziato a tergiversare, a prendere tempo. Alla fine hanno avanzato la propria nomina e quegli schifosi degli Ungart l’hanno appoggiata» scosse la testa, amareggiato.
«Dagli Ungart te lo aspetti, con tutti i sotterfugi e le bastardate. È davvero disgustoso che si siano accordati così».
«E la situazione come si collega al fatto che sequestrate materiale già pagato?» insistette Ganus.
«Dobbiamo prepararci» disse con semplicità Keva «Bund Kato è paziente, ma la pazienza ha un limite. Se Gorunn non rimetterà la testa a posto in fretta…». Lasciò la frase in sospeso e fece vagare lo sguardo significativamente sui colleghi indaffarati. Solo in quel momento, e non fu il solo, Claudius si accorse che ogni singolo nano nella fucina era al lavoro su un’arma o un pezzo di armatura.
Odine spezzò la tensione allontanando il discorso dalle minacciose insinuazioni di Keva.
«È normale che Cutter sia andato alle miniere, invece di attendere che il carico arrivasse in città?»
Keva si dondolò sui talloni e rispose: «Sì, lo faceva spesso. Su alle miniere ci sono i piazzisti, si possono concordare dei prezzi di favore».
«Il tutto in maniera legale, chiaramente» considerò Ganus, domandando senza farlo. Ki-do gli appioppò una sottile gomitata.
Gli occhi di Keva si strinsero di nuovo. «Non lo so, e non mi importa. Quello che fanno gli agenti commerciali è affar loro. Finché i materiali passano dalla città e la nostra quota viene pagata, non vedo perché dovremmo ficcare il naso. Non siamo come le sanguisughe dello Shogunato».
Ki-do si affrettò a ringraziare il fabbro, si scusò per il disturbo e raccolse i compagni, spingendoli verso l’uscita come una mamma chioccia.
Una volta all’aperto si lasciò sfuggire un sospiro irritato.
«Beh, il mio carico è bello che andato».
«Qual è la prossima mossa?» Odine si rigirò la lancia fra le mani.
«Troviamo Cutter» dichiarò Ganus «Deve rispondere a Ki-do… e anche a me».
Il gruppo si allontanò dal “Martello di Keva”, tornando verso le locande del porto. Claudius si incamminò per ultimo, chiudendo la fila insieme a Kento. Guardò il vanara e gli si rivolse.
«Puoi mettere una coperta addosso all’Inquisitore, ma non lo puoi nascondere, eh?»
Tornarono alla stessa locanda dove si erano fermati la mattina, l’adrenalina del tentato agguato si era ormai dissipata, lasciandoli in balia della stanchezza; era stata una giornata faticosa, con tutto quel camminare e per via del muro sociale eretto dai nani della città. La cena arrivò a un tavolo silenzioso e pensieroso. Dopo qualche minuto passato a ingurgitare un passabile stufato di pesce – Kento si servì delle sole verdure portate al tavolo come contorno – Ki-do ruppe la stanca quiete:
«Dato che Cutter non è ancora tornato dalle miniere, domani possiamo partire per andargli incontro».
«Sono molto lontane?» chiese Odine «Serve fare scorta di cibo?».
«Ci si arriva in una giornata di cammino, di buon passo».
Alla prospettiva di passare l’intero giorno successivo a camminare Claudius fece una smorfia. «Ci sono corriere da poter prendere per un viaggio più rapido?»
«Di solito qualche carro si trova sempre, ma siamo in mezzo alla settimana, le corriere degli operai sono già partite» spiegò Ki-do.
«Assurdo che non ci sia un sistema più sicuro ed efficiente per muoversi, nell’interesse del mercato dell’argento».
Intervenne Ganus: «Le vene d’argento delle miniere sono in esaurimento. Adesso estraggono soprattutto carbonfossile».
Claudius giocherellò con la testa di uno scampo emersa dalla brodaglia della cena. «Adesso si spiega».
«In ogni caso» disse Ki-do «dovrebbe essere semplice parlare con Cutter, una volta arrivati lassù».
«Semplice?» la voce gracchiante fece capolino insieme al muso del coboldo da dietro la schiena di Kento. Claudius non riuscì a evitare che il fastidio gli si stampasse in viso.
«Io no sarebbe così sicuro, caro mio». Senza complimenti, la creatura si sedette fra Odine e Ganus e cominciò a riempire una gavetta di metallo con il cibo ancora presente sui piatti.
«Giù le zamp…» iniziò Ki-do, ma Ganus coprì il resto della protesta domandando: «Cos’hai sentito?».
«Io ha scoperto che clan maggiori è in fermento» fece il coboldo tra un boccone e l’altro, noncurante degli sguardi di fuoco di Ki-do e dell’espressione di disgusto di Claudius «Bada bene, equilibrio fra clan è sempre precario, ma ora città è come polveriera pronta a fare “BUM!”, se tu capisce cosa io dice. Gorunn e Ungart però è “alleati”» e sottolineò la parola simulando le virgolette con le dita artigliate.
«Questo l’abbiamo scoperto anche noi» disse Odine «Lo sapresti se fossi venuta dai Kato, come avevi detto. Dove sei stata?».
«Oh, io era in quartiere, aspettava che voi arrivate, poi ha sentito botto e visto parete che veniva giù su strada» gli occhi giallastri fissarono la ragazza. «Io ha visto che voi aveva situazione sotto controllo, poi nani arriva e porta via omino, allora io segue e sente che è colpa di Ungart! Allora io va e chiede in giro “eeehi, ma che ha fatto Ungart?” e io… scopre». Fece una pausa per bere, una pausa fin troppo lunga, durante la quale Claudius roteò gli occhi al cielo e Ki-do allontanò i vassoi dalla gavetta del coboldo.
«Io scopre che Ungart fa sparire gente su a miniere».
«Gli Ungart stanno facendo sparire delle persone?» chiese Ganus, con volto serio.
Il coboldo fece spallucce. «Così dice gente. Persone fa “puf!” su a miniere e gente dice che è colpa di Ungart. Io però non ha avuto tempo di chiedere a Ungart se questo è vero».
«Aspetta» Ki-do smise di allontanare le vettovaglie e si voltò verso il coboldo, corrucciando le sopracciglia «Quindi se Cutter era su alle miniere e non è ancora tornato…».
Il coboldo annuì ed esclamò, in tono un po’ troppo vivace, date le circostanze: «Ha fatto “puf!”».
«E tu vorresti andare a parlare con le persone che potrebbero essere responsabili?» chiese Kento, più genuinamente interessato alla risposta che preoccupato.
«Beh, gente dice che Ungart fa sparire persone, ma dice anche che è colpa di Ungart se c’è cattivo raccolto o se piove troppo. A gente piace incolpare Ungart, è facile farlo perché Ungart no difende da accuse» spiegò il coboldo con un’altra alzata di spalle.
«Come facciamo a trovare un clan che non esibisce il simbolo di famiglia?» chiese Ganus, evidentemente ripensando alle accuse degli uomini dei Kato.
Il coboldo emise un sonoro rutto. «Potrebbe no essere facile» ammise. Si portò un dito alla macchia rossa sul muso e picchiettò al lato delle narici da rettile. «Però» disse con tono complice «noi sa che Ungart e Gorunn è “alleati”» e ripeté il gesto di enfasi.
Scattò improvvisamente in piedi sulla panca e con fare concitato disse: «Io ha ancora tanto da chiedere in giro. Si può parlare con famiglie di scomparsi, capire se sanno qualcosa di miniere. Si può cercare Ungart e provare a parlare. Si può andare da Gorunn e dire di aiutarci a trovare Ungart».
Odine fece un breve fischio e propose: «Sembra tanto lavoro. Forse è il caso che ci dividiamo?».
«Non è una pessima idea, ci risparmierebbe un po’ di tempo» considerò Ki-do, meno concentrato sul mostrare disappunto al coboldo, ora che la situazione si era rivelata così seria.
«I Gorunn sono il clan più agiato, è gente ricca, supervisionano il mercato del gioco d’azzardo e degli… illeciti» guardò di sottecchi Ganus.
«Sembra gente interessante con cui fare una chiacchierata» disse lui, travisando completamente lo sguardo dell’artigiano.
«Se è gente importante» intervenne Claudius «sarà abituata a un certo tipo di presentazione» e sfoderò i polsini della camicia, lisciandosi poi il colletto. Col cavolo che passerò anche domani a camminare tutto il giorno. E così fu deciso: i due nani e Claudius sarebbero andati a colloquio coi Gorunn, mentre Odine, Kento e il coboldo avrebbero conversato con la gente comune. Alla fine della cena gli animi del gruppo erano un po’ più saldi, ora che avevano un piano, tanto che si concessero un paio d’ore di chiacchiere leggere e bevute un po’ meno leggere. Quando fu tempo di ritirarsi per la notte, il coboldo era già sparito da un pezzo.
Si risvegliò il mattino successivo in un lago di lenzuola sudate, dietro le palpebre il ricordo di un sogno di pelle perlacea, ali da pipistrello e una coda che si avvolgeva intorno alle sue gambe stava svanendo rapidamente. Abbandonò in fretta il letto; le stoffe che lo ricoprivano – semplici per non dire dozzinali – trattennero il suo calore e lo lasciarono tremante a indossare la mise scelta per la giornata – naturalmente dopo essersi lavato via l’appiccicume di dosso. La camicia dal taglio classico color vinaccia, il pantalone nero e la giacca lunga di barathea, elegante e sobria. Fu solo quando si aggiustò il basco sulla testa che i rimasugli del sogno smisero di pungolarlo, lasciandolo comunque con un senso di perdita che non riusciva a spiegarsi e lo metteva a disagio. Scese a fare colazione e trovò Odine e Kento che già si stavano avviando per la loro esplorazione. In pochi minuti, il tempo di mettere qualcosa nello stomaco, e anche lui e i due nani del gruppo erano per strada, diretti verso un quartiere che il giorno prima avevano solo sfiorato, un quartiere che ispirava racconti di famiglie perbene e vite lussuose.
Distratto dalle sensazioni che gli aveva provocato, più che dal sogno stesso – ormai totalmente rimosso dalla memoria fallace – Claudius si lasciò guidare, facendo vagare lo sguardo sugli abiti variopinti e raffinati, di fattura decisamente più pregiata della media incrociata in città fino a quel momento. I mezzi economici più disponibili non eliminavano però l’argento dall’equazione, anzi, lo rendevano solo più presente, i monili più grandi, più appariscenti e più numerosi.
Si trovò a seguire Ki-do e Ganus dentro un edificio a due piani che scoprì essere un casinò. La sala era grande e ariosa, colorata, viva. Il rumore eccitato dell’azzardo ronzava tutto intorno ai tavoli dove questo o quel croupier mescolava carte o ritirava puntate in oro sonante. L’ambiente era illuminato con la luce naturale, ma anche alcuni grandi candelabri agli angoli della sala e due lampadari pendenti dal soffitto aiutavano a bandire le ombre.
Sulla porta e sulle numerose finestre era ripetuto il simbolo di un serpente arrotolato su se stesso, la testa erta a fissare davanti a sé, inscritto in un cerchio lungo il quale una serie di rune naniche scivolavano ordinatamente. Una moneta, avrebbe avuto modo di capire in seguito. Mentre aspettavano di essere considerati dal personale della sala da gioco, studiò il disegno nei dettagli.
«Il simbolo dei Gorunn» spiegò Ki-do, accorgendosi dell’interesse di Claudius per lo stemma.
«Ho notato che il serpente ricorre spesso, negli emblemi dei clan» disse lo studioso.
«Era il simbolo con cui si marchiavano i dissidenti» intervenne Ganus a bassa voce.
«Ah. Riappropriazione» commentò Claudius.
Un addetto si fece loro incontro. Ancora brevi scambi nella lingua dei nani e il terzetto venne accompagnato a un tavolo da gioco al momento non utilizzato. Passarono diversi minuti, durante i quali Claudius si divertì a osservare i mercanti e i nobilotti esultare per la fortuna o maledire la sfortuna, tra lanci di dadi, sfregare di carte e tintinnare di monete. Una cameriera portò loro un vassoio con una bottiglia e quattro bicchieri di cristallo. Quando Claudius cercò la scarsella per versare la sua quota, la ragazza lo fermò.
«Offerto dalla casa» sorrise, un paio di orecchini d’argento a incorniciarle il volto. «Per scusarsi dell’attesa».
Ganus spese diplomatiche parole di ringraziamento da parte di tutti e tre, ma non toccò la bottiglia. Claudius si bagnò le labbra col liquido ambrato, che si rivelò essere un liquore alle erbe dal sapore forte e dal retrogusto di mandorle. Il bruciore dell’alcol era un po’ troppo per quell’ora del mattino, per cui Claudius adagiò il bicchiere davanti a sé e si limitò a giocherellare con il cristallo, catturando la luce per dipingere il tavolo di sprazzi iridescenti ed effimeri.
Finalmente una persona si avvicinò loro – se ne accorse solo grazie al fatto che Ki-do e Ganus si ricomposero dall’abbandono dell’attesa.
Era un nano dalla barba rossiccia, divisa in tre parti intrecciate singolarmente e poi unite in un unico fascio, numerosi anelli e biglie a ornarla. Addosso portava una splendida giacca di velluto color nocciola e sopra di essa una peculiare collana composta da tanti grossi anelli ovali, tutti d’argento fuorché uno, ricavato da un metallo bronzeo e opaco. Nell’insieme, i bagliori che emettevano gli anelli argentei riflettendo i fuochi dei lampadari disegnavano intorno al suo collo una catena, il singolare anello scuro dava l’illusione che fosse spezzata. Che modo elegante e intelligente di omaggiare la propria storia, ammirò Claudius. La fissazione della città per i suoi anni di prigionia lo tediava. Anche la sua gente era stata oggetto di schiavitù nella baia di Leskar, un tempo, ma i discendenti non ne avevano fatto la loro intera personalità, come invece l’avevano attivamente resa i nani di Kibildûm. Tuttavia, la fattura e il gusto estetico del monile indossato dal nano che si presentò come Horo Gorunn lo portarono a valutare con più rispetto quell’attenzione al passato.
«Grazie per la pazienza» esordì questi immediatamente in Comune «Ci avete presi in un periodo piuttosto impegnato».
«Abbiamo sentito» Ganus salutò con un cenno del capo, prendendo l’iniziativa prima che potesse farlo Ki-do.
«Pare che abbiate qualche gatta da pelare con l’elezione del nuovo Console».
Gorunn si sedette, aggiustandosi le code della giacca e accennò un sorriso: «Certe notizie raggiungono anche le orecchie dei forestieri, vedo. E cos’altro avete sentito?».
«Che i quattro clan sono fortemente in disaccordo. Che Odo appoggia la nomina di Kato, e voi avete l’appoggio degli Ungart».
«Non l’abbiamo chiesto, sapete? Il Bund ha solo trovato opportuno prendere in mano la situazione: mio padre sapeva che gli Ungart avrebbero votato per chiunque altro che non fosse Kato».
«Il Bund è vostro padre?» borbottò Ki-do, d’un tratto più rispettoso.
«Esatto» confermò lui con tranquillità.
«Ci onorate» Ganus fece un altro cenno con la testa.
«Che il figlio del Capoclan riceva dei forestieri senza appuntamenti e senza referenze ha dello straordinario» osservò Claudius.
Il sorriso di Gorunn si allargò. «Non siete i soli ad aver sentito nuove notizie. Si dice che un Inquisitore dello Shogunato si aggiri in città insieme a un gruppo di stranieri appariscenti come capre in un pollaio» ammise, ammiccando in direzione di Ganus.
«Capirete la curiosità del Bund in merito alla vostra visita… in cosa possiamo esservi utili?» Gorunn intrecciò le dita delle mani davanti a sé, in paziente attesa.
«Stiamo cercando un uomo. Un agente commerciale, Francis Cutter, è scomparso dopo una visita alle miniere» dichiarò Ganus «Speravamo che, data la vostra posizione col clan Ungart, poteste aiutarci a raggiungerli o addirittura combinare un incontro».
«Ah, capisco…» disse pensosamente il nano, lisciandosi la barba curata. «Un’altra delle notizie che avete sentito, immagino».
Ganus annuì, mentre Ki-do ribadiva: «La gente pensa che ci siano gli Ungart dietro le sparizioni».
«La gente» sorrise amareggiato Gorunn «pensa anche che siano i soli a girare attorno al pianeta».
«Non crede che gli Ungart siano colpevoli?»
«Non vedo come alcuno dei clan possa beneficiare da questo tipo di pubblicità; poi, detto fra noi, se fossero davvero gli Ungart, sarebbero molto più discreti. No, sta succedendo qualcosa, alle miniere. Qualcosa di strano. E non credo che i clan siano coinvolti».
Gorunn si aggiustò sulla sedia e proseguì: «È stato dopo il primo incontro per l’elezione, quando i Kato hanno iniziato a fare la voce grossa e le cose si sono fatte pesanti. Alcuni dei lavoratori hanno cominciato a portarsi dietro le famiglie, su alle miniere, soprattutto se con figli piccoli… C’era il timore che qualche famiglia rivale potesse tentare azioni violente sui cari. E poi, la gente ha iniziato a sparire».
«Così, da un giorno all’altro?» chiese Ki-do.
Gorunn annuì e precisò: «Bambini, specialmente, ma non solo. Qualcuno è stato ritrovato. Morto». Si incupì e scosse la testa.
«Avremmo già mandato qualcuno a indagare, se non fosse che i Kato minacciano la lotta armata da un giorno all’altro. Non possiamo permetterci di privarci di uomini abili, e mandare uomini inabili servirebbe solo ad aumentare il numero delle vittime».
Lasciò scorrere lo sguardo sui tre compagni e azzardò: «Voi, d’altronde, sembrate abili. Un certo scampato attentato nel quartiere dei Kato lo testimonia».
Claudius, Ganus e Ki-do si scambiarono uno sguardo.
«Immagino che non sappiate chi possa essere stato il mandante? I Kato sembravano pensare che, ancora una volta, il tentato omicidio sia da imputare agli Ungart» dichiarò Ganus, usando parole pesanti con impressionante leggerezza.
Il figlio del Bund scosse la testa. «La loro ipotesi è buona quanto quella che potrebbe azzardare chiunque. Non so per certo chi abbia cercato di giocarvi questo brutto tiro» sminuì con altrettanta naturalezza.
Gorunn continuò: «Data l’esperienza, però, potrebbe essere una buona idea uscire dalla città, almeno per un giorno o due, e perché no, fare un giro alle miniere. Avete anche una motivazione personale, dato che cercate uno degli scomparsi. Potreste prendere in considerazione l’idea di indagare per nostro conto?».
«Non saprei…» Ki-do si mosse, a disagio, sulla sedia «Ho un’attività da mandare avanti, è solo per questo che sono venuto qui. E per come stanno le cose in città ora, dubito che riceverò nuovi materiali tanto presto».
«A quello possiamo pensarci noi» propose Gorunn. «Magari non saranno tutti quelli che avete ordinato, ma possiamo fare in modo di fornirvene almeno una parte».
«Ammetto che sia un’offerta allettante. Comunque non possiamo accettare per tutti» Ki-do scosse il capo.
Ganus annuì: «Abbiamo altri compagni e dovremo chiedere la loro opinione, prima di accettare un incarico potenzialmente pericoloso».
Gorunn si alzò in piedi. «Beh, pensateci» disse «Avreste la nostra gratitudine, se decideste di accettare. Dietro adeguato compenso per voi e i vostri compagni, si capisce».
«Parleremo con i nostri due soci e vi faremo avere una risposta entro stasera» Claudius si alzò dal tavolo a sua volta, con un cenno del capo.
«Due?» chiese Ganus, mentre si allontanavano verso l’uscita.
«Kento e Odine».
«E il coboldo?»
Claudius si aggiustò i capelli sotto al cappello. Sbuffò: «Che c’entra il coboldo?».