V - Lontano dagli Occhi

Dai documenti in possesso del consiglio dei Bund, non posso far altro che ratificare quanto richiesto. Da quando […] e […] hanno iniziato le indagini ho sempre mostrato le mie remore. Nessuno di noi, in quanto fratelli del Colle dell’Argento, dovrebbe subire angherie da parte dei propri alleati. Ma le evidenze, dopo i due attacchi del mese scorso, si sono fatte più concrete. Ho convocato […] come imputato, per dargli la possibilità di difendersi; non si è presentato perché è il colpevole, o gioca al suo gioco come ha sempre fatto? Gli Ungart non sono il problema, ma lo diventeranno, se l’atteggiamento è questo. Spero di ottenere giustizia, per i clan e la città intera.
Diario CCCXVI [secretato], Biblioteca Consolare Privata (Kibildûm)

 

Rumori di risveglio. Uno spiraglio di luce dall’esterno. Il gomitolo di pelo e scaglie si sciolse mano a mano che i suoni si facevano più convinti, mugolii di “Buongiorno…” e strascicare di piedi. Aprì un occhio giallastro e rimase a respirare l’odore di sonno che riempiva il nascondiglio. Attese con pazienza che i due nani e la scimmia bipede finissero di prepararsi e uscissero dalla camera. E anche dopo, attese qualche altro minuto. Aveva imparato con l’esperienza quanta differenza potesse fare. Quando nella stanza tutto era rimasto sufficientemente quieto per il tempo che reputò necessario, emersero dalla tana improvvisata come una coppia di volpi del deserto e si lasciarono alle spalle il mobiletto sfondato, una sorta di comodino da letto con un cassetto minuscolo e uno sportello a cui mancava la maniglia. Theresa, aggrappata a lei come uno zainetto, si concesse uno stiracchiamento e uno sbadiglio gigante. Kattegat fece altrettanto.

Nessuno si era accorto che le due si erano intrufolate nella stanza non appena il locandiere l'aveva assegnata al gruppo. Nessuno si era accorto di come erano entrate mentre gli altri facevano colazione, con abilità e pazienza, perlustrandone gli angoli ed eleggendone il comò scassato a giaciglio discreto. Nessuno si era accorto che avevano passato lì la notte – beh, quasi nessuno, ma era stato più facile del previsto allontanare dal nascondiglio le due lucertole con il fiato acido, grazie a un misto di coccole, bocconcini di discutibile provenienza e la sottile aura di velata minaccia emanata da Theresa.

Ho fame, le disse la scimmietta.

Adesso andiamo a mangiare, tranquilla, le comunicò senza parlare. Recuperò lo zaino dal nascondiglio e se lo issò sulle spalle. Theresa ci si accomodò sopra. Devi cambiarlo: questo è grosso e pesante. Se dobbiamo correre saresti troppo lenta.

Kattegat la zittì con un borbottio, ben sapendo che aveva completamente ragione. Scivolarono fuori dalla camera con baldanzosa circospezione.

Il trucco era la sicurezza. Se riusciva a proiettare sicurezza a sufficienza, nessuno si sognava di interrogare il bizzarro coboldo e la scimmia che lo seguiva. Ricevettero appena uno sguardo stranito dalla cameriera incrociata in corridoio, e uno di nanica indifferenza dall'oste.

L'artigiano e i suoi accompagnatori non erano nella sala, ma il tavolo con cinque piatti non ancora sparecchiato le disse che si erano allontanati da poco. Proseguendo con fluidità verso l'uscita, sgraffignò rapidamente i resti del pasto, schiaffando nelle manine di Theresa un frutto dall'aspetto buccioso e infilandosi in bocca quanti più pezzi di carne poteva.

Emerse nelle strade di Kibildûm. Dove si va ora? Theresa scalpitava.

Troviamo lo scimmione e la tipa strana. Theresa scese dal suo trespolo e indicò eccitata le tracce di saliva acida dei due sauretti che lo sciamano si portava sempre dietro.

Kattegat lodò il suo occhio acuto. Scivolarono avanti tra le ombre.

La scimmietta era evidentemente in vena di scherzi, e rimbalzava di muro in muro, saltando ogni tanto sullo zaino di Kattegat e mordendole affettuosamente le corna e il naso macchiato di rosso. Il coboldo la lasciava fare, almeno finché Theresa non tentò di carpire il nuovo pugnale che Kattegat portava ben nascosto sotto ai vestiti.

Smettila. Questo no, la redarguì. La scimmia si lamentò con uno strillo. Lo voglio rivedere.

Non rompere, rispose bruscamente Kattegat, per poi addolcirsi subito dopo: È pericoloso tirarlo fuori per strada. Un tizio ci è morto.

Il nano volante. Theresa mostrò i denti mentre muoveva la testolina su e giù.

Smettila di chiamarlo così, non volava per un cavolo.

Già! Ha fatto tutt'altro che volare!

L'entusiasmo di Theresa era fuori luogo tanto quanto l'indifferenza di Kattegat. Ricordò l'inseguimento del giorno prima, che aveva osservato dalle ombre; il rumore improvviso del crollo sulla strada, il nano in fuga sui tetti, i cinque che gli stavano alle calcagna, mentre si avvicinavano rapidamente nella direzione delle due, nascoste come sempre tra i vicoli.

E poi il salto e lo schianto. E la rapida decisione di sguinzagliare Theresa a svuotare le tasche del tipo. Si era allontanata appena prima che potesse essere vista, trascinando con sé un pugnale anonimo e pesante. Beh, anonimo a eccezione dell'occhio inciso sulla lama, subito sopra alla guardia. Un occhio stilizzato, dalla pupilla verticale come quella di un serpente. Il serpente, simbolo universalmente adottato dai nani della città. Non solo dai Clan maggiori, ma anche dalla gente comune, come testimoniavano gli innumerevoli graffiti di serpenti stilizzati, onnipresenti in qualsiasi quartiere battuto da Kattegat fino a quel momento; dal porto, dove non c'era magazzino che non riportasse almeno una decina di quei rettili, disegnati nelle più disparate configurazioni, fino agli uffici e le fucine e gli ostelli dei quartieri popolari, dove erano solitamente accompagnati da frasi in nanico, frasi allusive su Leskar oppure offese allo Shogunato. Sull'elsa del pugnale, poi, era incisa, ancora più piccola e discreta, una singolare runa nanica – in realtà, più una sorta di agglomerato di rune. Per Kattegat, che borbottava molto bene il nanico per essere una creatura priva di labbra, la runa non aveva alcun senso linguistico.

Grazie ai suoi trascorsi era stato facile intuire che si trattasse di un simbolo cifrato, il cui significato attualmente – e solo attualmente – le sfuggiva, laddove invece la maggior parte delle persone avrebbe concluso di trovarsi davanti a un imbellimento senza senso.

Il nano non-volante aveva proprio un bel pugnale, tornò alla carica Theresa.

Non puoi giocarci.

Uffa, sei noiosa come una banana di vetro.

Kattegat sbuffò. A chi stai dando della banana di vetro?

La scimmietta le mostrò la lingua rossa prima di tirarle la coda e correre avanti.

«Ah, eccola! Dov'eri? Ti aspettavamo» l'apostrofò la tipa strana, quando finalmente Kattegat decise di farsi vedere. Si trovavano ai margini di uno dei quartieri più interni della città, un insieme di case in pietra e mattoni dove molte delle famiglie di estrazione sociale operaia avevano le loro abitazioni.

«Io era qua e là» rispose il coboldo dopo un veloce inchino e un'alzata di spalle. «Noi comincia?» e si incamminò senza aspettare una risposta, marciando per la strada lastricata con un dondolio risoluto della coda.

«Con Odine stavamo decidendo come procedere» disse lo scimmione «Non è una situazione facile su cui fare domande».

«Vero, vero» annuì Kattegat assumendo l'espressione di chi la sa lunga. Theresa saltò dalle sue alle spalle dello sciamano, sollevando strilli di gelosia di uno dei due sauri.

«Pensavamo di provare semplicemente a chiedere alle persone cosa sanno delle sparizioni» la ragazza giocherellava con la lancia come suo solito.

«Ok, ok, ok…» Kattegat annuì e guardò i due di sottecchi. «Voi è sicuri che non ripete scene di ieri mattina?»

«Da qualche parte dobbiamo pur cominciare. A meno che tu non voglia usare i tuoi metodi. Qualunque essi siano…»

Il coboldo dovette sforzarsi di non mostrare il suo compiacimento. «Voi lascia fare a me».

Si inoltrarono nel quartiere. Diversamente da quello delle fucine, esplorato il giorno prima, le abitazioni avevano quasi tutte la stessa altezza. I caseggiati erano ariosi e ben tenuti; i graffiti erano presenti come in qualunque altro quartiere in città, ma le case sembravano solide e curate. Usate, non usurate. Le strade erano frequentate: c'erano nane, in strada, che sbattevano tovaglie per ripulirle dalle briciole, o che lavoravano sedute rammendando o sgranando legumi in una pentola, e persone di ogni genere che percorrevano la strada in senso opposto a quello dei tre forestieri, dirette alle loro occupazioni lavorative lontano dal focolare.

Ciò che mancava – i tre se ne accorsero dopo un po' – era l'esuberanza dell'infanzia: in quartieri popolari come quello che stavano attraversando ci si poteva aspettare di essere circondati da nugoli rumorosi di bambini e ragazzi ancora troppo giovani per un lavoro retribuito, eppure non si sentivano scalpiccii di piccoli piedi né risate e grida di giovani voci. Passando, capitò più volte che un singolo bimbo seduto su un uscio aperto venisse esortato in tutta fretta a rientrare, o che il volto depresso di un ragazzino li osservasse passare da dietro finestre chiuse.

Lo scimmione commentò ad alta voce: «Le cose sono davvero cambiate in questo posto. I bambini giocavano per strada, non molto tempo fa».

«Perché qualcuno vorrebbe giocare per strada? È così sporco» replicò la ragazza con sorpresa.

«Che infanzia noiosa devi aver passato!» si limitò ad affermare Kento con un sorriso. Punta sul vivo, lei accennò a mezza voce: «Se lo dici tu…».

Kattegat proseguiva in testa agli altri due, scambiando cenni di saluto e brevi auguri di una fruttuosa giornata nella lingua del posto, senza però accennare a fermarsi. Dopo il decimo scambio del genere, il coboldo cominciò ad aggiungere considerazioni sul tempo e sulla pioggia che proprio non ne voleva sapere di scendere, vero, signora mia, speriamo che questa settimana si decida a venire giù. Quando le fu chiaro dalle espressioni di frustrata curiosità di Odine e di vacua pazienza di Kento che i due non spiccicavano una parola di nanico, Kattegat smise di perdere tempo e si rivolse alle persone con motivato interesse, salutando con garbo e presentando in nanico i due “spilungoni” alla ricerca di un amico sparito su alle miniere. Da lì la conversazione si spostava in Comune e gli altri due potevano fare le loro domande e, con discreta sorpresa, ricevere delle risposte che non fossero evasive e poco chiare.

Grazie al riserbo nanico, non venne mai fuori che Kattegat aveva avvicinato quelle persone già il giorno prima, e che la loro buona disposizione veniva esclusivamente da quello.

Risultò che la maggioranza degli scomparsi era costituita da bambini – e questo spiegava l'assenza degli stessi per le strade –, figli dei lavoratori delle miniere che avevano cominciato a portarsi dietro la famiglia data la situazione così calda in città, adesso rinchiusi nelle loro camerette per la loro protezione. Tutti e tre trovarono strano che a sparire fossero in particolare i giovanissimi, soprattutto in mancanza di un movente chiaro. Nessuno sembrava avere una vera spiegazione per quello, mentre era più facile che ipotizzassero i colpevoli.

«Gli Ungart, che la terra li inghiotta!» sputò sonoramente una vecchia nana dal mento tremante, che già il giorno prima Kattegat ricordava essersi lanciata in un'invettiva contro il misterioso Clan. La rabbia nei suoi occhi era la stessa che il terzetto aveva osservato in quelli degli altri abitanti, gente comune addolorata e furiosa per le sparizioni e per l'apparente indifferenza dei Clan, da cui si sentivano ignorati e sminuiti. L'opinione della vecchia era diffusa e condivisa dalla maggioranza delle persone che si intrattennero in conversazione con loro. Tra coloro che non ritenevano il Clan Ungart direttamente responsabile o che non avevano un giudizio in merito, c'erano soprattutto umani.

«Non so chi potrebbe fare del male a tutti quei bambini» mormorò un uomo che trovarono seduto fuori dalla sua abitazione a riposare la gamba steccata e fasciata. «Non c'è nano che conosca che si spingerebbe a tanto. Gli Ungart saranno anche delle canaglie, ma non so se facciano eccezione».

Odine, tra una presentazione in nanico e l’altra, aveva iniziato a interrompere Kattegat con domande sulla lingua del posto, a cui evidentemente era molto interessata. «Quindi quale sarebbe l’espressione più appropriata per un saluto informale?» chiedeva, e il coboldo, anche se gradualmente più spazientito, non si faceva grossi problemi a ripetere questa o quella parola, ricevendo un sorriso cortese che tentava di nascondere uno sguardo di sfida da parte della ragazza.

Dalle poche parole sensate che riuscirono a ricavare da una donna in lacrime, ebbero la conferma che non solo nani figuravano tra gli scomparsi, ma anche umani, come il fidanzato di lei, sparito alle miniere dopo un normale turno di lavoro. Un vecchio nano dalla barba crespa disse loro che si stava cercando di organizzare una colletta, nel tentativo di racimolare abbastanza denaro da interessare qualche mercenario che potesse gettare luce sulle sparizioni.

Accettiamo l'offerta? Theresa tornò a morderle le dita mentre si allontanavano dall'abitazione del vecchio.

No, non ne vale la pena. Kattegat le grattò distrattamente la pancia pelosa. Quanto mai potranno raccattare?

Il quartiere non era povero, d'accordo, ma non era neanche abitato da famiglie benestanti. Kattegat non era avida, quando si trattava di denaro; tuttavia, se doveva mettersi in pericolo indagando su gente che veniva fatta sparire, sarebbe stato meglio farlo per una quantità di grana consistente. 

Fu ancora una volta Theresa a notare l'occhio. È come quello del pugnale, saltò sullo zaino due o tre volte, la coda attorcigliata attorno al collo del coboldo. Disegnato sul muro dell'edificio, c'era un piccolo occhio, dalla pupilla verticale come quella di un serpente. Sarebbe potuto sfuggire allo sguardo più attento, nascosto com'era tra i graffiti che lo circondavano, un insieme di disegni e incisioni fra cui immancabili serpenti, “Grunji ha la mamma di Leskar” e una caricatura di un nano col nasone gigante e le chiappe al vento. Sarebbe sfuggito anche a lei, se non fosse stato per Theresa, e probabilmente lo avrebbe ignorato, se non fosse stato per il pugnale. Soprattutto, non avrebbe provato il picco di selvaggia soddisfazione che provò nel notare che poco lontano, proprio sotto al nasone, c'era il gruppo di rune senza senso.

«Tutto bene, Kattegat?» domandò Kento quando notò che il coboldo era rimasto indietro a fissare la parete.

Il cervello dei coboldi è una macchina frenetica che non rallenta nemmeno durante il sonno. Quello di Kattegat in quel momento correva così forte da emanare metaforiche scintille. Prese una delle sue decisioni repentine. Indicò l'occhio – e solo quello – ai due compagni.

«Voi vede questo simbolo?» assunse un'espressione misteriosa prima di continuare, «Io sentito che simbolo di Ungart è occhio di serpente. E se…?».

Odine inclinò la testa, studiando il graffito. «Ci sono tantissimi disegni identici in giro nel quartiere. Non mi sembra che questo abbia qualcosa di particolare».

«Proprio per quello» l'espressione di Kattegat si tinse di un'ombra cospiratoria. «Ungart sa nascondere bene, no?»

«Mi sembra un po' azzardato» fece lo sciamano.

Il coboldo lo affrontò con le zampe sui fianchi e i gomiti sollevati. «Quanto tempo è che tu non viene in città?»

«Circa un anno».

«Ecco, io è stato qui tipo due settimane fa». Theresa si aggrappò alle corna di Kattegat. Granbanana è una gran-bugiarda!

Kattegat la ignorò e continuò: «Come tu ha visto, cose sono cambiate parecchio».

«D'accordo, ma non capisco…» cominciò a dire Kento, ma il coboldo lo interruppe con un rumoroso e teatrale sospiro: «Non mi pare che noi ha tante alternative…!».

Kento e Odine si scambiarono uno sguardo. «Che aspettiamo?» tirò su le spalle la ragazza.

Girarono intorno all'edificio fino a vederne l'ingresso. Si trattava di una struttura in pietra, non dissimile dalle case che gli stavano intorno. Sembrava essere una specie di magazzino o di ufficio di qualche tipo, ma la porta era socchiusa e dall'entrata si poteva vedere che una parte del soffitto era semisfondato. L'interno era buio, con solo poche casse e pancali sporchi di polvere e rena a occupare la stanza. Si avvicinarono fino a mettere piede sull'ingresso. Le pareti interne erano rivestite di pannelli di legno – un isolante termico economico e conveniente. Subito sulla sinistra faceva bella mostra di sé una sorta di gabbiotto di ferro con una guardiola; le sbarre un po' storte circondavano quello che sembrava un gigantesco sacco, e che altro non erano in realtà che vecchie tende di iuta, legate e cucite col filo di ferro lungo tutta la superficie interna della gabbia, per garantire una parvenza di privacy a qualunque addetto vi si trovasse dietro – al momento, nessuno. La parte inferiore della guardiola era in legno, più robusto di quello che vi si trovava intorno, dalle vecchie casse alle pareti sottili, e meno polveroso. Accanto alla portineria, una panca appoggiata alla parete completava il quadro. Sopra di essa, seduto al buio, c'era un vecchio nano.

«Buongiorno» esordì Kento, prima che Kattegat potesse fermarlo.

«'giorno» biascicò in risposta il vecchio nano.

Aveva una barba lunga e grigia, priva di decorazioni al contrario della maggior parte dei suoi concittadini; anzi, la barba stessa era sporca e asimmetrica, strappata in un paio di punti dove si intravedevano piccole chiazze di pelle. I capelli avevano lo stesso aspetto trasandato e malaticcio, cosa che nell'insieme lo faceva apparire come un grosso mastino con l'alopecia. La somiglianza era rafforzata dal paio di occhi infossati che guardavano in due direzioni diverse, quasi come se cercassero di mettere a fuoco un interlocutore troppo vicino – uno dei due, poi, coperto da una patina lattiginosa, non doveva essere poi così funzionante. I denti, piccoli e spaziati fra loro, spuntavano dal groviglio di baffi e barba come piccole gocce d'acqua su una grondaia sbiancata dal sole. Il viso era scavato e stonava con la corporatura massiccia che si intravedeva sotto i vestiti semplici – una camicia da lavoro ingiallita e un paio di pantaloni sporchi di calce e polvere, tenuti al loro posto da una cintura di corda.

Kento proseguì con crescente orrore di Kattegat: «Potrebbe dirci che posto è questo? Un mio compagno di viaggio ha notato qualcosa di particolare all’ingresso, e vorrei sapere se lei può esserci di aiuto».

Non l'ha detto davvero, pensò esterrefatta a beneficio di Theresa, ma nascose il suo irritato stupore e si trattenne in attesa della reazione del vecchio. Quello continuava a sorridere con fare ebete, cercando di inquadrare la scimmia che con un’espressione gentile gli si stava avvicinando.

«Scignore, io sciono sciolo di passciaggio. Vengo a sciedermi sciu quescita panchina quasci tutti i giorni. Quescito è un ufficio, abbandonato da anni».

Kattegat non fu la sola ad accorgersi della mezza verità uscita dal biascicare del nano, come testimoniavano le sopracciglia aggrottate di Kento, concentrate in un’espressione se possibile ancor più attenta del normale.

«Mi pare che il suo riposo quotidiano in questo posto sia una scelta quantomeno singolare. Posso sapere come mai?»

«Beh, deve sciapere che non sciono abituato più ad avere un tetto sciulla tescita. Una delle piccole gioie per il mio fondoscichiena è quescita panca» iniziò ad argomentare con tono sognante l’anziano signore.

«Posso capirla» incalzò lo scimmione «ma lei mi sembra una persona sveglia e arzilla. Inoltre ho notato il suo garbo nello scegliere di parlare nella lingua Comune con me. La maggior parte dei suoi concittadini non mi ha offerto fin da subito questa cortesia» e nel commentare lanciò un’occhiata verso la giovane donna, che incrociò le braccia e raddrizzò il busto.

Kattegat osservava freneticamente la scena, con gli occhi che guizzavano da un volto all’altro, senza avere la minima intenzione di intervenire. Il pelosone parla troppo, fece eco ai suoi pensieri Theresa. Con quello scambio, Kento aveva probabilmente già rovinato la migliore possibilità che si era presentata loro.

Il vecchio si rabbuiò per un momento. Poi, come se nulla fosse, tornò a sorridere, i denti piccoli che ancora facevano capolino in modo inquietante. «Sono un tipo per bene, io».

«C’è un occhio qui fuori» intervenne bruscamente Odine. «Un occhio di serpente, un graffito sul muro». Ma sì, liberiamo i goblin, si morse la lingua Kattegat.

Cercando di mettere a fuoco anche lei, il nano replicò: «La scittà non è più quella di un tempo. I vandali sciono ovunque, disciegnano un sciacco di osscienità».

«Mi vuole dire che un onesto cittadino come lei non è a conoscenza del significato nascosto degli occhi in questa città?» e all’atteggiamento inebetito dell’anziano che si girava nuovamente verso di lui, Kento aggiunse «L’occhio dovrebbe essere un simbolo del clan Ungart, no?».

Il vecchio emise uno strano sibilo, che Kattegat interpretò come una risatina soffocata.

«Mi sciembra di scientire gli altri abitanti del quartiere. Manca l’acqua? Colpa degli Ungart. Mi hanno licenziato? Colpa degli Ungart. Fa troppo freddo? Colpa degli Ungart. Mai una coscia sciensciata, dico io».

Kento continuò: «Beh, lei sembra non credere a queste sciocchezze. Sono interessato alla sua opinione».

«Ma quale opinione?! “Un nano nasce dalla pietra, cresce nel sospetto e muore con onore”! In quescito poscito sciono tutti coscì! Ma c’è un limite alle dicerie!» si scaldò il nano.

«Quindi mi vuole dire che le voci sugli Ungart che girano in questo periodo sono vuote?»

«Quali vosci?» il vecchio sgranò gli occhi strabici in modo fin troppo teatrale.

Sta giocando con noi, siamo il suo passatempo, scosse la testa Kattegat. La domanda è…

Sa qualcosa di utile?, completò Theresa.

Anche Kento sembrò chiedersi la stessa cosa, ma continuò ad assecondare il suo interlocutore rispondendo cortesemente: «Le voci sulle sparizioni, sui presunti rapimenti».

L’anziano signore fece del suo meglio per modellare il proprio viso in quella che doveva essere un’espressione indignata, ma lo sdegno e la sorpresa durarono troppo poco per essere plausibili. Ancora una volta tornò a sorridere in modo inquietante.

«In passciato ho scientito di assciasscini. Ho viscito pagare riscicatti per liberare qualcuno. Ma nessciuno è ancora morto, e nessciuno ha chiesto dei scioldi. Non qui, non ancora. Gli Ungart sciono lo scipauracchio, il babau della scituazione. Prendetela come una perla di sciaggezza popolare!» e si rimise a sibilare, divertito dalla sua stessa affermazione.

«Quindi per dire una cosa del genere lei ha delle prove?» Odine interruppe nuovamente il discorso.

La tipa strana è troppo impaziente, giudicò Theresa.

Lasciamola fare: ormai la conversazione è bruciata, prima finisce, meno tempo perdiamo.

Continuò ad assistere in silenzio alla scena, annuendo in direzione della giovane, come per incoraggiare la sua irruenza, in modo che i giochetti del vecchio arrivassero a una rapida conclusione.

«Prove? Ma io sciono un povero cittadino che sci riposcia sciu una panchina. Coscia posscio sciapere?»

«Per affermare quello che dice, dovrà pure avere qualcosa in più, oltre alla sua personale opinione» punzecchiò ancora la ragazza.

«Vado fiero di quello che penscio» rispose il nano, mentre iniziava a dondolarsi sulla panca, come a cercare una posizione più comoda.

«Quindi il fatto che qui fuori ci sia un occhio disegnato è un caso. E lei sta qui a… fare cosa esattamente?»

«Mi riposcio e… ascipetto».

«Cosa sta aspettando?» replicò Kento, tornando all’attacco.

«La fine, giovanotto. Quella che arriva per tutti, prima o poi» e ricominciò a sibilare.

Dopo questa risposta, visibilmente spazientita, Odine voltò le spalle al vecchio, fece un mezzo passo verso lo scimmione e a mezza voce commentò «Direi che ci siamo già fatti prendere in giro abbastanza. Vi aspetto fuori». Senza attendere risposta, alzò i tacchi e varcò la soglia verso l’esterno. Kento sembrava pensoso, e il suo sguardo si posò su Kattegat, che intuì le intenzioni del compagno: voleva che intervenisse anche lei.

Il coboldo mosse il muso verso il vecchio. «Tu ha fame? Io prende te un poco di cibo. Tu non sta molto bene, guarda che faccia!»

Il nano sembrò accorgersi solo in quel momento della minuta figura, e così Kattegat ebbe la conferma che al vecchio serviva un po' di tempo per mettere a fuoco ciò che lo circondava. Dopo un sospiro, Kento si decise a mollare l’osso.

«Mi scusi, signore, per il disturbo. È stato molto gentile. Se avessi altri dubbi, posso chiedere a lei, nel caso mi trovassi a passare di nuovo da queste parti?»

«Il piasciere è anche mio, giovanotto. Chi lo scia sce domani sciarò ancora qui? Ma sce ci fossci, sciarò felice di fare altre quattro chiacchiere!»

Kattegat e Kento uscirono una dopo l’altro dalla stanza, rimanendo però nelle vicinanze dell’entrata, dove Odine si era posizionata, schiena al muro e braccia incrociate dietro la testa.

«Bene, quindi possiamo andare» iniziò la ragazza, sgranchendo gli arti e tornando a giocherellare con le dita sul manico della sua lancia.

«Non ancora» fece di rimando lo sciamano. «Ci sono un paio di cose che non mi convincono».

«Kento, secondo me è solo una perdita di tempo».

«Non è detto». La ragazza guardò il compagno, che continuava con fare pensieroso a lisciarsi il pelo sul mento. «Non so se hai notato, ma appena è stato preso in contropiede ha abbandonato il suo finto difetto di pronuncia. In più ha detto che questo è un ufficio. Adesso, non tempo fa. Quindi quel tizio sa più di quello che sembra».

«E come pensi di farlo parlare?» la ragazza iniziò a scrocchiarsi le dita con chiaro intento minaccioso.

«Col dialogo», le dedicò uno sguardo eloquente. «Mi piacerebbe provare a…»

Lo scimmione continuò, ma Kattegat aveva già smesso di ascoltare. Aspettò che la ragazza le desse la schiena, tagliandola dal campo visivo dell'altro, e con un guizzo della coda si catapultò lontano dagli sguardi dei passanti.

Non restiamo con loro?

Kattegat scosse la testa e rispose: Non ci servono più. Non ora.

La piazza principale della città brulicava di vita, a quell'ora della mattinata, quando già si cominciavano a riempire le locande per il pasto di metà giornata. In quello snodo centrale incrociavano i loro percorsi persone di tutti i tipi. Da un angolo in penombra, Kattegat le osservava. I mercanti, coi loro pantaloni larghi e le scarselle gonfie. I soldati, asce affilate ai fianchi e sguardi minacciosi. Gli artigiani, mani callose e abiti da lavoro impolverati. I contadini, pelle bruciata dal sole e schiene curve. Gli studiosi, lunghi abiti e naso nei libri. Era fra questi ultimi che il coboldo sperava di trovare i conoscitori dell'arcano, gli utilizzatori delle arti magiche, gli aspiranti al potere infinito che la magia offriva. Un nano dall'aspetto impettito attirò la sua attenzione; sembrava giovane, indossava una lunga veste azzurra e camminava con alcune pergamene sotto il braccio. Sul petto sembrava portare un frammento di sole – una spilla dorata che ne rifletteva la luce. Quella stessa spilla Kattegat l'aveva vista a Rockstead, fuori dal Consolato, indossata da un gruppetto di signori altrettanto impettiti, impegnati in disquisizioni di filosofia dell'arcano, fumando pipe che avevano acceso con un movimento del polso.

Dal suo nascondiglio, attese pazientemente di avere una linea di tiro pulita. Fionda alla mano, elastico teso, il peso rassicurante di una sfera di metallo tra le dita.

Prendiamogli le ghette, suggerì Theresa.

«Sssh!» la zittì Kattegat prima di lasciare andare il piccolo proiettile di ferro, che colpì con impeccabile precisione la chiappa destra dello scolaro. Tutto si fermò e si concentrò in un singolo istante. Nel momento dell’impatto, fu come se una scarica di invisibile energia magica percorresse la traiettoria del proiettile in senso opposto, arrivando a depositarsi negli artigli aperti del coboldo. Ne annusò la scia nell’aria, riconoscendone le proprietà. Proprio quello che cercava. Uno strillo stupito e dolorante si liberò al di sopra della piazza rumorosa. Mentre il nano si passava le mani sul fondoschiena, Kattegat era già lontana.

Fece a ritroso la strada e tornò davanti all'ufficio “abbandonato”. Il coboldo, silenzioso e furtivo come un geco a caccia di insetti, guizzò rapido dentro il vecchio edificio marchiato dai graffiti. Il sole, che si era già abbassato in quella scarsa oretta di preparazione, rendeva più buio il locale; il vecchio nano era ancora lì seduto sulla panca, intento ad armeggiare con quelli che sembravano una lurida lampada a olio e una pietra focaia; con la luce che calava i suoi occhi ne avrebbero avuto probabilmente bisogno.

Non avvertì la presenza strisciante che si stava avvicinando, e per qualche secondo dette le spalle all’ingresso, mentre cercava di produrre scintille per accendere lo stoppino.

Kattegat non poteva chiedere di meglio. Sentiva ancora il sapore della magia sulla lingua, e cautamente, smettendo di celare completamente la sua presenza, enunciò una formula nella lingua dei Draghi.

Una scarica di energia invisibile si trasferì dalla piccola figura a quella del vecchio, che per un istante si fermò – l’esatto istante in cui l’incantesimo ebbe effetto. Il nano aveva sentito la voce provenire da un angolo buio; si voltò in direzione del suono e scandì in nanico «Chi è là?».

Il coboldo si mosse in modo da rivelare il suo corpicino, avvolto il più possibile nel suo mantello, cercando di non far trapelare nessun elemento che potesse renderlo riconoscibile. Theresa aiutò infilandosi nel cappuccio, rendendo la sagoma nell’oscurità quella di un essere piccolo, gobbo e bitorzoluto.

«Salve… Cercavo…» iniziò a dire con voce quasi tremante, per rendere credibile la pantomima.

Il vecchio strizzò gli occhi per vederla meglio, ma Kattegat si ritrasse, fingendo una timidezza che non le apparteneva.

«Non avere paura» le si rivolse lui, con impacciata gentilezza.

«Non ho paura» rispose lei in nanico «È solo che mi vergogno…». Proseguì, avvolta nel mantello: «Fammi un favore, voltati e guarda in alto, così mi sentirò più a mio agio».

Il nano rimase stupito dalla richiesta forse per qualche secondo, prima di sorridere genuinamente ed eseguire, borbottando: «Ma certo, amico, se serve per tranquillizzarti…».

Gli diamo una botta in testa? Theresa si affacciò dal cappuccio

No, ma non voglio che mi veda in faccia.

«Cerco qualcuno con cui parlare» continuò ad alta voce «Forse tu puoi darmi una mano. Sai come potrei fare a contattare il Clan Ungart? Ho bisogno del loro aiuto».

Il vecchio sospirò, gli occhi poco funzionanti che studiavano le ragnatele del soffitto sfondato.

«È difficile parlare con i loro uomini» cominciò, esitando.

«Per favore, sono disperato» mentì Kattegat con un singhiozzo.

Il vecchio strascicò i piedi come le parole che fingeva di storpiare.

«Non saprei… Forse è meglio se mi dici come possono aiutarti e ci vado a parlare io».

«Non posso, è una questione troppo personale. Riguarda questo pugnale». Il coboldo allungò l'arma prelevata il giorno prima e la espose alla scarsa visuale del vecchio, che non appena la esaminò da vicino si irrigidì.

«Dove l'hai preso?» chiese con severità.

Kattegat lo ritrasse sotto al mantello, piagnucolando «Non posso dirtelo, ma devo parlare con loro! Ho visto alcune cose… Si tratta di un loro pugnale, non è vero?».

Il vecchio annuì lentamente e poi scosse la testa, la barba pezzata che tremava di rabbia.

«È gravissimo che qualcuno se ne sia impossessato, anche se un bravo ragazzo come te. I nostri agenti si farebbero esplodere, pur di non lasciare a giro tracce così evidenti» si sbilanciò finalmente – con estrema soddisfazione di Kattegat.

«I vostri agenti…? Allora anche tu…» lasciò aleggiare l'espressione di simulata sorpresa, prima di riprendere «Tranquillo, non lo dirò a nessuno. Però ora capisci perché devo parlare col Clan? Ti prego, aiutami».

Il vecchio soppesò la richiesta dell'“amico” in difficoltà e il rischio a cui si era appena esposto lasciando trapelare la propria affiliazione. Emise un sospiro che denunciava una malattia respiratoria.

«C'è un posto, al porto» e con un sussurro le spiegò come raggiungerlo.

Quasi senza ringraziare, Kattegat volò fuori dalla porta con Theresa al seguito.

Individuò l'edificio all'indirizzo fornito dal vecchio mastino con relativa facilità: si trattava di un magazzino abbandonato del porto, un loculo non troppo grande e dall'aspetto non dissimile dal luogo dove il vecchio aspettava sulla sua panca. Panche, però, lì non ce n'erano, e la stanza sembrava se possibile ancora più polverosa e piena di calcinacci. All'interno non c'era nessuno, e il gabbiotto della portineria era mezzo sfondato. Kattegat e Theresa si misero silenziosamente a perquisire la stanza, centimetro per centimetro, alla ricerca di qualunque cosa fuori posto.

Stiamo cercando un granello di polvere in mezzo a un mucchio di polvere, si lamentò Theresa dopo qualche minuto.

Se hai un'idea migliore ti ascolto.

La scimmietta emise uno strillo di impazienza e fastidio. Qua dentro fa freddo, si lagnò ancora.

Kattegat si voltò per zittirla, ma le parole le morirono in gola prima ancora che avesse modo di formularle. Un brivido l'aveva percorsa.

Hai ragione, fa freddo qua dentro. Mosse un paio di passi verso Theresa e si fermò quando un nuovo brivido le attraversò la spina dorsale dalla base del collo fino alla punta della coda. Cautamente, procedendo per tentativi, individuò l'origine dello spiffero nella parete più a est. Il muro si mostrava solido e robusto, eppure un refolo d'aria sembrava emanare da un punto non meglio precisato dei mattoni proprio all'altezza del muso del coboldo. Li tastò con pazienza e circospezione e dovette trattenersi dall'esultare quando gli artigli passarono attraverso la parete solida come se fosse uno specchio d'acqua.

Li abbiamo trovati!

Vuoi che dia un'occhiata?, chiese la scimmietta arrampicandosi sulle sue spalle.

No, potrebbe essere pericoloso. Rifletté rapidamente. Ho un'idea.

Quasi buttò a terra lo zaino e ci si infilò fino ai fianchi. Ne riemerse con dei fogli di pergamena stropicciati, una boccetta di inchiostro mezza piena e un pennino sporco. Prese un frammento di carta e scrisse frettolosamente in nanico: “Il problema delle sparizioni vi riguarda da vicino. Posso aiutarvi e indagare, per il giusto prezzo”. Infilò il bigliettino nella feritoia nascosta dall'illusione e attese. Il muro sputò fuori un diverso pezzo di carta, che finì a terra sollevando uno sbuffo di polvere. Kattegat lo raccolse. Lo aprì. Lo lesse. Sorrise: «Affare fatto».

con la collaborazione di G. M.
con la collaborazione di G.M.